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Chiave di lettura - La casa in collina nelle grinfie della storia (Giancarlo Chiarle)

La casa in collina nelle grinfie della storia

di Giancarlo Chiarle

 

“Io, che tendenzialmente non sono un fan di nessuno, lessi e rilessi quei libri, perché in realtà era come se mi parlassero di me stesso, del rapporto con gli altri, della difficoltà di dare un indirizzo alla propria vita, della vulnerabilità degli uomini e della fragilità dell’esistenza” (Guillame Musso, La vita segreta degli scrittori, 2019)

“Che lei mi trovi scrittore tormentato, una volta mi sarebbe piaciuto; ora meno; ora vorrei pace, e basta…” (Cesare Pavese, 1950)

 

Come molti coetanei ho letto la prima volta Pavese negli Oscar Mondadori, la collana che ha definitivamente lanciato il libro tascabile in Italia vendendo ogni settimana in edicola centinaia di migliaia di copie. Era uno degli autori di punta, presente praticamente con tutta l’opera in una dozzina di volumetti, dal n. 28 (La bella estate) del 1964, anno di esordio della collana, al 380 (Dialoghi con Leucò) del 1972, e vendeva alla pari di mostri sacri come Hemingway e Fitzgerald, certo sorretto anche dai consigli per le letture estive degli insegnanti delle superiori. Scoprire adesso che ormai da decenni gli Oscar, nel frattempo cresciuti ad autonoma casa editrice, non lo ripubblicano e neppure lo ristampano, è stata una rivelazione folgorante del cambio d’epoca e dei paradigmi cultural-letterari.

Pavese è insomma rientrato nella scuderia della casa madre Einaudi[1], che nonostante tutti i maquillage (pregevole l’edizione che sta uscendo in questi anni, con copertine acquerello, ricchi apparati, e nuove introduzioni firmate da scrittori di successo) rimane comunque un’altra cosa. L’ultima riedizione Oscar di quasi tutte le opere risale ai primi anni ottanta, dopodiché è stato rieditato un unico (dicesi unico) titolo, La bella estate, ad oggi quindi l’unico disponibile nella collana (il suo permanente successo è dimostrato dal fatto che una nuova edizione è stata fatta l’anno scorso). In fondo alla classifica, il romanzo La casa in collina, compreso nella silloge Prima che il gallo canti che è stata pubblicata una volta sola, nel lontano 1967.

E dire che per molti è il miglior libro di Pavese, e certamente quello più autobiografico. A causa dei bombardamenti nel gennaio del ’43 si era trasferito con diversi altri colleghi torinesi nella sede romana appena aperta, ed era tornato stabilmente a Torino il 26 luglio, giorno successivo all’esautorazione di Mussolini ed al crollo del regime, quando in città pareva di respirare dopo vent’anni un’aria di liberazione (“il mondo è tutto cambiato”, scrive in una lettera), si pensava addirittura che la guerra fosse finita (come accadrà di nuovo l’8 settembre) e si moltiplicavano le violenze spicciole a carico degli uomini e dei simboli del regime, come racconta nel settimo capitolo de La casa in collina.

Causa il devastante bombardamento avvenuto il 13 luglio, il più disastroso nella storia d’Italia (792 morti!), la sede torinese si era spostata da via Mario Gioda (attuale via Giolitti) in corso Galileo Ferraris, ma di lì dovette presto sloggiare per il bombardamento della notte tra il 7 e l’8 agosto trovando provvisoria sistemazione nella casa di Luigi Einaudi in via Lamarmora, ed è qui che, in una lettera alla madre dell’11 del mese, Leone Ginzburg ritrasse Pavese assorto in un gesto che gli era caratteristico:

“Ho trovato la casa editrice nuovamente distrutta, donde il nuovo trasloco (questa è la casa del senatore, evacuata) […]. Sono qui che lavoro in una grande camera a pian terreno, che dà sul giardino. Alla mia destra c’è il tavolo di Pavese che sta tormentandosi i capelli”[2].

Intorno all’8 settembre lascia anche lui Torino, come gli amici e colleghi (alcuni si uniranno alle bande dei “ribelli” che cominciano a formarsi), probabilmente anche per la preoccupazione di poter essere oggetto di una sorveglianza più stretta a causa della passata condanna al confino. Si trasferisce a Serralunga di Crea nella casa di campagna della sorella Maria, che si è sempre presa cura delle sue incombenze quotidiane, e con la cui famiglia convive dopo la morte della madre.

È questione di giorni dopo, forse il 10, quando spedisce una cartolina da Asti, dato che il titolo complessivo “Torino e armistizio – poi Serralunga” precede nel diario poetico l’annotazione del giorno 11, o forse il 15, quando sempre al Mestiere di vivere affida l’unica nota di preoccupazione che lascia in giorni e mesi per lui certamente pieni di paure ma avari di annotazioni cronachistiche: “Ero in treno, disperato e curioso [attento]”[3].

Di quei mesi fatidici rimane quasi solo la corrispondenza che intrattenne con la giovanissima Fernanda Pivano, già sua allieva al D’Azeglio, una delle tante donne di cui s’invaghì senza troppa fortuna, sfollata con la madre a Mondovì: il 10 settembre le manda la cartolina da Asti per informarla che la casa editrice è “smobilitata”, e il 21 una da Pontestura, nei dintorni di Serralunga, dicendole di esser “ancora vivo” e incoraggiandola a proseguire le sue traduzioni[4].

Dal paesino, stretto e lungo su un basso crinale sottostante il santuario, sente di notte gli echi degli scontri. Lo riferirà Davide Lajolo, fervente giovane fascista e poi partigiano comunista, autore di una delle biografie più fortunate:

“Mi dirà, dopo la liberazione, nella redazione de ‘L’Unità’ di Torino, dove venne per mesi ogni notte, che da quelle colline sentiva gli spari vicini delle bande partigiane e avrebbe voluto partire ogni notte per venirci a raggiungere, ma aveva l’orrore del sangue. Lo scrisse più meditatamente nei libri, sia ne La casa in collina sia ne La luna e i falò. […] C’è chi sa combattere con le armi alla mano e chi non può accettare, suo malgrado, questa condizione. Nessuno pronuncia ormai facili sentenze di fuga o di viltà…”[5].

Il mancato impegno resistenziale è appunto uno dei “problemi” di quel tempo. Alla Pivano, il 10 settembre, aveva scritto: “Io sono sotto la visita e, comunque vada, è probabile che per un pezzo non ci vedremo”[6]. La visita cui allude è quella militare in quanto, richiamato alle armi con tutti quelli della sua classe (1908) per la revisione delle liste dei riformati e rivedibili, dopo la prima visita medica, fatta a marzo, aveva avuto sei mesi di convalescenza, con l’obbligo poi di ripresentarsi[7]. Non essendosi ripresentato a settembre, poteva essere considerato renitente o disertore reato che, in regime di legge marziale, la pena prevista era ovviamente grave (dal febbraio del ’44 la pena di morte).

A fine ottobre esce da Einaudi (la prima edizione era uscita nel 1936 per le edizioni fiorentine di “Solaria”, la vetrina della letteratura giovane di qualità) la “nuova edizione aumentata” della raccolta di poesie Lavorare stanca. La data del “finito di stampare” è “Ciriè, tipografia di Giovanni Capella, 23 ottobre 1943”. Commissariata la casa editrice, Pavese nascosto in Monferrato, si tratta evidentemente del compimento di un progetto avviato e già portato avanti in tempi precedenti, ma per la revisione delle bozze o il ritiro di qualche copia è possibile, se non probabile, che l’autore abbia fatto un salto a Torino o a Ciriè[8]. Secondo una successiva pubblicazione della casa editrice, lo slogan che comparve sulla fascetta era stato personalmente dettato da lui: “Una delle voci più isolate della poesia italiana”[9]. Pavese, che vuole così contrapporre nettamente il suo stile narrativo a quello dominante dell’ermetismo, si autodefinisce quindi, a quest’altezza cronologica, semplicemente poeta. Ma lo slogan suona anche, a posteriori, involontariamente autoironico, se si pensa che, ‘recluso’ a Serralunga, egli attraversava effettivamente uno dei momenti di massimo isolamento della sua pur sempre solitaria vita (un destino di questo libro: la prima edizione era uscita mentre lui si trovava al confino a Brancaleone Calabro, ben isolato anche allora…).

A Serralunga abita con la sorella, il cognato Guglielmo Sini e le due nipotine a Villa Mario, bella casa di qualche pretesa, con doppia scalinata di accesso al balcone centrale, costruita proprio sul ciglio della strada, prima di una curva a gomito, lungo la salita che si inerpica al paese. È una casa isolata, la prima che s’incontra, ed è quindi impossibile non notarla, per la posizione e le finiture: si possono immaginare le paure di chi doveva vivervi nascosto, con il timore costante di essere scoperto ad ogni arrivo di camion repubblichini o tedeschi. Ma di fronte vi è uno splendido apertissimo panorama che si allarga a contenere a dozzine (si direbbe) le colline e collinette del Basso Monferrato, verso Casale: paesaggio ideale per stimolare l’immaginazione di un sognatore, per nutrire le sue riflessioni di poetica. Non perché appollaiata su un crinale, il posto che nelle sue passeggiate Pavese preferiva (“Piacere di camminare sulle creste”, annota il 12 novembre), ma perché esposta a questo panorama, è questa la “vera” casa in collina. Qui la solitudine e l’ozio, inteso nel senso classico di tempo libero da occupazioni contingenti, furono propizi all’estro creativo, qui la preistoria del romanzo prese forma.

Dai libri che può leggere più liberamente e dalla contemplazione di questo orizzonte scaturiranno i suoi simboli. Aveva annotato ancora a Roma, il 3 giugno: “Formazione rustica, cioè non contadina […] La tua classicità è: le Georgiche, D’Annunzio, la collina del Pino. Qui si è innestata l’America come linguaggio rustico universale (Anderson, An ohio pagan), e la barriera (il Campo di grano) che è riscontro di città e campagna […] Recentemente hai aggiunto la scoperta dell’infanzia (campagna = forma mentale), valorizzando gli studi di etnografia (il Dio caprone, la teoria dell’immagine-racconto). Il tuo è un classicismo rustico che facilmente diventa etnografia preistorica”[10]. E a Serralunga il 17 settembre: “Una piana in mezzo a colline, fatta di prati e alberi a quinte successive e attraversate da larghe radure, nella mattina di settembre quando un po’ di foschia la spicca da terra, t’interessa per l’evidente carattere di luogo sacro che dovette assumere in passato. […] Basta questo a sostituire il brivido religioso?”[11].

Dalla casa in cui si trova per un sentiero che attraversa luoghi boscosi e isolati si sale comodamente in un’oretta alla base del monte di Crea, dove sorge l’antico santuario dedicato all’Assunta, il santuario “nazionale” di quel paese di colline che è il Monferrato (alla fine del ’400 i marchesi Paleologi vi si fecero ritrarre in un grande affresco ai lati della Vergine), e di lì proseguire per la visita alle cappelle sei-settecentesche del Sacro Monte, con le loro mosse scenografie barocche, fino a raggiungere, per una lunga scalinata, il Paradiso. Annoterà con un certo rimpianto l’8 febbraio del ’46: “Forse la triste e chiusa passeggiata su per Crea ti disse simbolicamente di più che non tante persone e passioni e cose di questi mesi. Certo, il mito è una scoperta di Crea, dei due inverni e dell’estate di Crea. Quel monte ne è tutto impregnato”[12].

Quello religioso, dell’affermata ma solo presunta e soprattutto passeggera conversione, è appunto il secondo “problema” di quel tempo. A dicembre trovò rifugio e lavoro, con limitati compiti di assistenza nello studio e di ripetizione, sotto le mentite spoglie di un tal Carlo De Ambrogio, nel grande Collegio Trevisio tenuto dai padri somaschi a Casale, dove pure si nascondevano molti soldati fuggitivi e sbandati. Vi restò fino ai giorni della Liberazione, con una pausa di quindici giorni quando fu costretto a tornare a Serralunga perché uno studente aveva accusato i superiori di “ospitare i ribelli”.  E vi fece amicizia con un sacerdote, padre Giovanni Baravalle, che gli aprì le porte della biblioteca proponendogli la lettura di opere spirituali e che discusse con lui di questioni di fede. Secondo Baravalle, cui si devono le successive testimonianze, la crisi mistica dello scrittore sarebbe culminata il 27 gennaio del ’44 quando dalle sue mani avrebbe ricevuto la comunione. In effetti, a tale data Pavese annotò nel diario una riflessione sull’autoumiliazione necessaria a chiedere la grazie (“è questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede”) e all’inizio dell’anno successivo annotò a consuntivo di quello appena trascorso: “Annata strana, ricca. Cominciata e finita con Dio…”[13].

Fu a Crea, nel piazzale del santuario che, secondo la vulgata, incontra un singolare personaggio, il conte Carlo Grillo, con il quale entrò in una relazione complessa fatta di amicizia ma anche di confronto e dialogo intellettuale. Grillo viveva nella casa di famiglia (la villa del Greppo) a pochi km di lì, a Moncalvo, il paesone principale centro produttivo e commerciale della zona. Ne farà l’inquieto protagonista de Il diavolo sulle colline, uno dei tre racconti lunghi che compongono La bella estate[14].

In una delle rarissime missive, il 18 dicembre del ’44 scrisse all’amico Giuseppe Vaudagna: “Sono in campagna coi miei e lavoricchio nella vicina città […] Brutta cosa esser nelle grinfie della storia”[15]. Se nelle pagine del diario sembra estraniarsi completamente dalla tragica guerra civile in cui l’Italia è precipitata, e in cui poco alla volta scompaiono alcuni degli amici più cari, l’altra metà dell’esperienza di quelle stagioni andrà a nutrire le pagine del grande romanzo, la cui stesura iniziò nel settembre del ’47. Nelle sue pagine ritroviamo la casa in collina, ma trasportata sulla collina torinese che Cesare frequentava con gli amici da ragazzo e dove Corrado, il professore protagonista, ogni sera cerca rifugio dai bombardamenti. La professione è la stessa, ma la scuola da Casale si trasferisce a Torino. Il collegio dei preti passa da Chieri a Casale. Il religioso con cui il protagonista discute e fa amicizia nel romanzo si chiama Padre Felice. L’orrore della guerra civile è reso con una scena in cui si imbatté, di ritorno da Casale a Serralunga, sulla salita di Ozzano: i cadaveri ancora caldi e sanguinanti di quattordici militi repubblichini lasciati sul terreno da un’imboscata dei partigiani[16].

Ma il grande tema, il rimorso che Pavese trasferisce nel carattere velleitario del suo alter ego, l’intellettuale Corrado, è quello della incapacità di passare alla lotta, di aderire non per principio ma con l’azione alla guerriglia partigiana, mettendo in gioco la vita. È il tradimento, insomma, cui allude il titolo complessivo del libro, che comprende anche Il carcere: “prima che il gallo canti”, come Gesù dice a Pietro, “tu mi rinnegherai tre volte”. E nel momento centrale del romanzo, quando Corrado osserva da lontano, nascosto e al sicuro, il momento in cui la donna che ama, Cate, e i suoi compagni vengono presi dai fascisti, “Si udì il canto di un gallo, strepitoso e lontano”.

Preso “nelle grinfie della storia” Corrado-Pavese è ora costretto a fuggire, ma la salvezza che spera di trovare nella terra d’origine, il mondo che pensa ancora inviolato in quanto astorico della campagna, si rivelerà impossibile: la storia lo ha preceduto anche lì, ha cancellato la stagione del mito, come sono lì a denunciare i cadaveri che anche lì la guerra civile ha lasciato insepolti nei boschi. Sarà il tema dominante dell’ultimo romanzo: i falò di S. Giovanni trasformati nell’incendio appiccato alla cascina da un mezzadro impazzito, e nel rogo che consuma i resti di Santa, la ragazza di buona famiglia e di facili costumi, fiore di bellezza, che, accusata di doppio gioco, è stata fucilata dai partigiani sulla larga cima della collina di Gaminella.

Nel 1990 la pubblicazione del cosiddetto “taccuino segreto” ha sconcertato molti, mentre in anni più recenti l’attribuzione a Pavese di alcuni articoli su un giornale locale nei giorni della Liberazione ha consentito di retrodatarne l’adesione al comunismo[17], “conversione” anche questa rivelatasi poi superficiale e passeggera, perché Pavese “non era un militante politico” ma “culturale”, era questa l’unica militanza “che lo interessasse e per la quale fosse disposto ad assumersi ogni responsabilità”[18]. In un tempo di passioni forti e di forti contrasti fu coraggioso nel concludere i suoi maggiori romanzi con un sentimento di umana pietà:

“La prospettiva non è, e non vuole essere, politica, ma fa appello a una pietas più profonda. Pavese respinge adesso [con La casa in collina], a differenza di quanto era accaduto nel Compagno, ogni tipo di ideologia progressista e consolatoria, per insistere, invece, sull’assurda irrazionalità della guerra, che sembra aver violato e profanato il grembo stesso della terra-madre, mettendo a nudo l’impotenza dell’uomo: la crudeltà della storia ha sconfitto, per così dire, la sacralità del mito…”[19].

 

 

 

Note:

[1] Un tentativo di stimare la fortuna di mercato dei libri Einaudi di Pavese si trova in G.C. Ferretti, L’editore Cesare Pavese, Torino 2017, p. 149 sgg.

[2] A. d’Orsi, L’intellettuale antifascista. Ritratto di Leone Ginzburg, Vicenza 2019, p. 309. Sui bombardamenti e gli spostamenti, cfr. Claudio Pavese, Lo struzzo e la cicogna. Uomini e libri del commissariamento Einaudi (1943-1945), Milano 2014, p. 17 sgg.

[3] C. Pavese, Il mestiere di vivere 1935-1950, a cura di M. Guglielminetti e L. Nay, Torino 1990, pp. 257-258. Secondo una testimonianza della nipote Cesarina, già il 2 settembre si sarebbe trasferito da una parente a Casale (Cl. Pavese, Lo struzzo cit., p. 42). La mamma di Pavese, Consolina Mesturini, era originaria della vicina Ticineto.

[4] C. Pavese, Lettere, a cura di L. Mondo e I. Calvino, II, Torino 1966, pp. 476-477.

[5] D. Lajolo, Pavese e Fenoglio, Firenze 1970, p. 31. La biografia è Il vizio assurdo, uscita nel 1960.

[6] Pavese, Lettere II cit., p. 476.

[7] Ivi, p. 442 sgg.

[8] Il primo impulso risale ad una lettera di richiesta di pubblicazione di tono scherzoso inviata da Pavese a Giulio Einaudi l’8 giugno del 1941 (C. Pavese, Lettere, a cura di L. Mondo e I. Calvino, I, Torino 1966, p. 394). Sulla vicenda vd. Cl. Pavese, Lo struzzo cit., pp. 104-105.

[9] Catalogo generale delle edizioni Einaudi dalla fondazione della Casa editrice al 1° gennaio 1956, Torino 1956, p. 41. La paternità del testo fu confermata da Calvino (Ferretti, L’editore cit., p. 48).

[10] Pavese, Il mestiere cit., pp. 254-5.

[11] Ivi, p. 258.

[12] Ivi, p. 307.

[13] Ivi, pp. 272, 296. Ho utilizzato la testimonianza di Baravalle riportata da C. Medail, “Quel lungo anno nel chiostro con il professor Pavese”, in “Corriere della Sera” 1° giugno 1990.

[14] Sul personaggio cfr. tra l’altro Lajolo, Pavese e Fenoglio cit., pp. 49-65 (“La risposta del Diavolo”).

[15] Pavese, Lettere II cit., p. 481

[16] L. Mondo, Quell’antico ragazzo. Vita di Cesare Pavese, Milano 2006, pp. 121-122.

[17] Cfr. L. Mondo, Pavese il taccuino segreto, in “La Stampa” 8 agosto 1990; M. Masoero,“Anche astenersi è un prender parte”. Cesare Pavese a Casale Monferrato, in Come l'uom s'etterna. Studi per Riccardo Massano, a cura di P. Luparia, Torino 2006.

[18] F. Pivano, I conflitti di Pavese, in “Corriere della Sera” 5 settembre 1990.

[19] L. Nay e G. Zaccaria, Nota, in C. Pavese, La casa in collina, Introduzione di Donatella Di Pietrantonio, Torino 2020, p. 197.

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