Cronache culturali - 06/20

Elogio dell’attenzione: il messaggio della nonviolenza

di Pietro Polito

Lo stato d’animo con cui Natalia Aspesi ha dichiarato di avere affrontato la cosiddetta fase 2, che si è avviata alla fine lockdown, a partire dal 4 maggio 2020, e si è conclusa con la cosiddetta fase 3, iniziatasi il 3 giugno, è coinciso con il mio: “Vilmente aspetto, forse uscirò domani, forse dopodomani, forse chissà quando: non ho paura del virus. [...] Ho paura di noi, degli altri ma anche di me”[1]. La tragedia è entrata nelle nostre vite come paura del presente e del futuro tanto che ci sembra fuori luogo enfatizzare la differenza tra il tempo che abbiamo lasciato, tra la vita precedente, “a cui ora si dovrebbe tornare, ma che già non ci piaceva più”, e la vita nova che si aprirebbe dopo il lockdown: “Per quale ragione – si domanda Aspesi – dopo questi due mesi di tragedia la vita imprigionata, il futuro che centinaia di futurologi promettono spaventoso, dovremmo essere cambiati, diversi, nuovi, generosi, pazienti, altruisti, sereni, democratici, educati, informati, affidabili, fiduciosi, onesti, prudenti, sinceri, ottimisti, frugali, protettivi, responsabili, coscienziosi, addirittura fratelli, quindi non più infelici?”[2].

In effetti, che cosa lascia pensare e sperare che di colpo l’esperienza crudele che stiamo vivendo, che non si è affatto conclusa e che potrebbe ripresentarsi in forme ancora più devastanti (facciamo i debiti scongiuri), abbia prodotto o produrrà effetti benefici e argini durevoli al nostro egoismo? Certo, c’è da augurarsi la crescita della consapevolezza che “siamo una piccola insignificante porzione di tutto l’immenso mondo, senza scampo nel bene e nel male, soprattutto nel male”[3]. Anch’io come la scrittrice, mi sento prigioniero, non perché per alcune settimane sono stato costretto in casa, piuttosto perché “il mondo con tutti i suoi mastodontici disumani errori si è imprigionato contro se stesso. Mi ha imprigionato: anche se mi grazia e mi libera, che libertà, che grazia, non a me ma agli altri assicura?”[4]. A differenza della scrittrice, ho paura più di me stesso che degli altri. Dai maestri ho imparato che in situazioni estreme dove è in gioco la scelta tra il bene e il male, tra l’interesse particolare e il bene comune, occorre sempre partire con umiltà da un salutare esame di coscienza.

In me è più forte il timore che, “se è vero che, per un po’ nulla sarà più come prima, non illudiamoci, le premesse ci sono già perché tutto cambi perché tutto torni come prima”[5]. Non basta. Concordo con chi ha scritto che “ci sarà da lottare, per strappare al nuovo un volto umano”[6]. Sì, lottare! Non c’è da aver paura della parola “conflitto” se significa: lottare sul piano sociale contro le disuguaglianze; sul piano politico contro ogni possibile tentativo di furto di diritti; sul piano culturale per un’etica della relazione; sul piano esistenziale contro noi stessi. Forse “è giunta l’ora di riscoprire la forza del conflitto”, “l’ora di invocare il Widerstansrecht, il diritto di resistenza”?[7].

  1. I mercanti e gli umanisti

 Il contrasto dei tempi nuovi sarà tra i mercanti e gli umanisti. Fondamentalmente vi sono due modi di scrutare ciò che la pandemia lascerà nei cuori e nelle menti: quello del mercante che ne trarrà nuove occasioni per rinnovare e ampliare il proprio interesse e quello dell’umanista che lotta per instaurare un mondo migliore. Il valore del mercante è la distrazione, il valore dell’umanista è l’attenzione. Il mercante conta sulla nostra distrazione, mentre l’umanista è sempre in allarme, sa che i valori non sono mai dati una volta per tutte: la libertà può essere perduta, l’uguaglianza non è mai raggiunta, la guerra può tornare. Dovremo imparare a essere più discreti verso l’ambiente, le cose, le persone: “Ma prima occorrerebbe che decrescesse il numero di quanti trovano ancora il modo di approfittare delle crisi per arricchirsi” [8].

Come direbbe il filosofo italiano della nonviolenza, Aldo Capitini, la scelta è tra l’accettazione della realtà così come è e il “riconoscimento di dover elevare la nostra vita a un uso più attento, più puro, più aperto, e che non ci basta né la prudenza né la saggezza né la religione che già abbiamo”[9]. Da Capitini, anche se troppo spesso non sono stato e non sono conseguente nelle mie azioni, ho imparato l’importanza della fiducia razionale; dell’apertura religiosa; della presenza aperta; dell’attenzione che si manifesta con e nella gentilezza.

  1. Laicismo solidale

Personalmente mi riconosco in una sorta di “laicismo solidale”[10]. Il “laicismo solidale” poggia la scelta del bene e il rifiuto del male su un fondamento razionale. Se il male è dolore, sofferenza, guerra, genocidio, segregazione razziale, intolleranza, coercizione, prevaricazione, ingiustizia, egoismo, indifferenza, violenza, volgarità, noncuranza, aridità, superficialità, spreco, profitto, “il bene è selettivo, riservato, spesso timido. Il bene è l’indignazione che si offende e si rattrista. Esso si nutre di attenzione e scrupoli. È la gentilezza perdente”[11]. Attenzione. La gentilezza perdente non è sinonimo di sconfitta. Anzi è la via migliore per raggiungere risultati condivisi, effettivi, duraturi. La gentilezza dei vincitori viene dopo la sconfitta dell’altro e sancisce e stabilisce i rapporti di forza tra vincitori e vinti. Al contrario, la gentilezza dei perdenti, che è sconvolgente tanto più quanto più è inaspettata e imprevista, interroga i contendenti, scuote le certezze, introduce il dubbio, è produttiva di nuove relazioni.

Attraverso la nonviolenza si impara a preferire l’apertura alla rivolta. Per questa via il ribellismo giovanile si trasforma nella consapevolezza che laicità significa anzitutto sforzo ininterrotto a liberarsi dai propri idoli non solo religiosi. La nonviolenza è un modo di impegnarsi per la giustizia contrapponendosi non alle persone ma alle situazioni. La presenza aperta va oltre la tolleranza perché non si arresta al precetto: “Non fare agli altri ciò che non vogliamo che gli altri facciano a noi”; oltre la fede perché non è limitata al cerchio dei credenti; oltre la tolleranza che è una virtù negativa: l’apertura è una virtù attiva, è gioia, attenzione appassionata, offerta del nostro contributo.

  1. Solo il fiore che / lasci sulla pianta è tuo

Mi accade spesso di riprendere gli Atti di una presenza aperta per poter rileggere e rimeditare un verso di Capitini: “E non coglierai i fiori. Solo il fiore che / lasci sulla pianta è tuo. Mostrerai che tu non / sei figlio del torrente che scava, usurpa e / fugge[12]. Il principio dell’amicizia come pratica nonviolenta potrebbe essere formulato in questo modo: “Come tu non mi chiederai di fare e di essere ciò che non desidero, anch’io non ti chiederò di assumere comportamenti che non senti”. Se nella relazione ci si pone in modo nonviolento, ciò che conta è il dialogo, la conoscenza, la voglia di scoprire e di scoprirsi senza sopraffare o lasciarsi sopraffare. L’abitudine a sovrastare porta a credere necessarie cose che non lo sono. Se affermarsi vuol dire imporsi, se “vincere” significa “sconfiggere”, se ottenere significa possedere, le amiche e gli amici della nonviolenza scelgono la rinuncia.

La nonviolenza è “attenzione e affetto per ogni singolo essere proprio nel suo esser lui e non un altro, per la sua esistenza, libertà, sviluppo”[13], lambisce le nostre scelte ordinarie di tutti i giorni e ha a che fare con la gentilezza e la delicatezza, la tenerezza, la pazienza e la prudenza, ci interroga nelle scelte estreme della vita e ha a che fare con il coraggio e la responsabilità, con la fede e la speranza. Nonviolenza è attività, impegno, iniziativa: siamo noi che “prendiamo l’iniziativa dell’appassionato superamento dei limiti”[14]. Nonviolenza è conoscenza di sé, dei nostri pensieri e delle nostre azioni, come delle nostre passioni e delle nostre emozioni; è capacità di riconoscere che ci sono dei limiti alle nostre azioni e alle nostre aspirazioni; è sospensione del giudizio; è disposizione all’ascolto; è attenzione ai modi di essere che sono in noi e negli altri: “L’attenzione a ciò che è altro, nulla toglie alla fermezza di cui siamo persuasi”[15].

L’augurio è che a molti sia accaduto almeno una volta di porsi durante la pandemia alcune domande come le seguenti. Immersi in un presente senza storia, quanta attenzione dedichiamo all’ascolto? Quanto tempo passiamo a guardare senza osservare? E quanto tempo perdiamo a chiacchierare invece di parlare, a sentire invece di ascoltare? Invece, perché non proviamo a scandire le nostre giornate con la saggezza della nonviolenza? Ascoltiamo Aldo Capitini: “il valore non è una quantità, ma uno stile”[16]. Se, il valore che ci guida nelle nostre azioni è l’attenzione, e non la distrazione, possiamo cercare di impiegare il tempo nel modo più nonviolento possibile e tentare di “elevare la nostra vita cercandone un uso più attento, più puro, più aperto”[17].

 

 

Note:

[1] N. Aspesi, Fuori c’è un mondo che non è cambiato. Io per ora non esco: ho paura di noi, “la Repubblica”, a. 45, n. 106, mercoledì 6 maggio 2020, p. 17.

[2] Ibidem. Per una chiara e accurata sintesi delle vicende pandemiche: Martina Girola, Corona virus, cento giorni che hanno stravolto l’Italia, Life Gate Stories”, pubblicato on line il 30 maggio 2020.

[3] N. Aspesi, Fuori c’è un mondo che non è cambiato. Io per ora non esco: ho paura di noi, cit., p. 17.

[4] Ibidem.

[5] Pier Giorgio Ardeni, Sinistra. Attenzione, il populismo non è un virus, “il Manifesto”, a. L, n. 108, mercoledì 6 maggio 2020, p. 1.

[6] Marco Revelli, La metamorfosi asociale e l’assalto al Palazzo sferrato da Confindustria, “il Manifesto”, a. L, n. 108, mercoledì 6 maggio 2020, p. 15.

[7] Così ritiene lo storico del movimento operaio, tra i fondatori della rivista “Primo maggio”, Sergio Bologna, in una intervista, a cura di Roberto Ciccarelli, “il manifesto”, giovedì 21 maggio 2020, p. 5.

[8] Faccio mie le parole di Eric Chevillard che durante la pandemia ha tenuto un diario di scrittura sul suo blog “L’Autofictif”, poi trasferito sulle pagine del quotidiano “Le Monde”, infine divenuto un libro Sine die, Prehistorica, Valeggio sul Mincio (VR) 2020. Cito dall’intervista, Lo scrittore e il virus, storia d’antagonismo, a cura di Alessandro Zaccuri, “Avvenire”, sabato 30 maggio 2020, p. 20.

[9] A. Capitini, Religione aperta, Guanda, Modena 1955; seconda edizione riveduta e corretta, Neri Pozza, Vicenza 1964; Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 105. Il tema è adombrato in una nota di Alfonso Berardinelli, “E’ davvero normale la nostra normalità, “Avvenire”, 22 maggio 2020: “Si sono levate voci vibranti in difesa della nostra normalità di prima, che dovremmo senza nessuna vergogna e scrupolo riavere indietro esattamente come era. Voci di chi si crede molto realista e invece sogna. Una felice normalità di vita non ha forse bisogno di essere diversa almeno in qualcosa di essenziale da quella che abbiamo conosciuto e che dovremmo non solo rimpiangere ma anche giudicare? Che cos’è normale e che cosa non lo è nei nostri cosiddetti stili di vita? È mai possibile che nella nostra smania di innovare innumerevoli cose solo perché il mercato ce le impone, non sia possibile innovare liberamente qualcosa di propria iniziativa e dopo attenta riflessione? Siamo o no ancora capaci di attenta riflessione?”.

[10] La formula è dell’amica Cristina Balzano Senza premeditazione. Scheggie 1988-2004, Trauben, Torino 2004.

[11] Ivi, p. 202.

[12]  A. Capitini, Atti della presenza aperta, Sansoni, Firenze 1943, p. 11.

[13] A. Capitini, Religione aperta, cit., p. 106.

[14] Ivi, p. 15.

[15] Ivi, p. 17.

[16] Ivi, p. 102.

[17] Ivi, p. 106.

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