Chiave di lettura - 03/19

Essere se stessi dappertutto: due romanzi di Giorgio Fontana
a cura di Marta Vicari


Ma qual è il discrimine tra il suo lavoro e la sua coscienza?
Questa è la domanda che la giornalista Elena Vicenzi pone al magistrato e sostituto procuratore Roberto Doni nel romanzo di Giorgio Fontana, Per legge superiore. Quale è il discrimine tra ciò che dobbiamo fare secondo la legge degli uomini, quella scritta, e ciò che dobbiamo fare secondo la legge superiore che detta ogni giorno il nostro comportamento e che ci rende esseri umani? Attorno a questo interrogativo ruota anche un altro romanzo di Fontana, romanzo che gli ha valso il premio Campiello nel 2014, Morte di un uomo felice (entrambi editi da Sellerio).

I due romanzi hanno al centro due magistrati, Roberto Doni e Giacomo Colnaghi, compagni di studi ai tempi dell’Università e finiti a lavorare a Milano. Entrambi hanno tra le mani due casi da risolvere che li porteranno a rivalutare profondamente il senso della loro professione, ad interrogarsi sui valori che guidano il loro agire e il loro mestiere. Ma mentre per Doni, più disilluso e meno incline a riflessioni deontologiche, l’esame di coscienza arriva solo quando si trova a dover ricoprire il ruolo di accusa contro un innocente e solo in seguito alle pressioni di una precaria trentenne giornalista freelance senza peli sulla lingua, Giacomo Colnaghi ha il desiderio quasi fisiologico di voler sempre capire le cause profonde che hanno mosso i suoi indagati a compiere quelle azioni che li hanno poi portati ad essere arrestati.
Se solo avesse potuto spiegare a sua madre, a chiunque, cosa significava voler conoscere la verità. Contribuire anche minimamente a creare un ordine giusto. Se solo avesse trovato le parole per dirle che questo non dipendeva da un astratto dovere ma da un bisogno fisico, che gli veniva dalle viscere, un po’ come innamorarsi o desiderare un bel piatto di pasta […] solo così era felice. E di certo sapeva quanto potesse pesare questa scelta sugli altri.
Colnaghi desidera arrivare al nocciolo delle azioni, alla spinta iniziale che crea il movimento, alla motivazione profonda che si cela dietro ogni crimine. E nel tentativo di fare questo, quasi inconsciamente, cerca di mettersi nei panni dei propri indagati, delle persone che interroga, delle persone che è costretto ad arrestare. Empatia? Pietas cristiana?
Colnaghi sorrise ancora. All’improvviso sentì arrivare la solita, assurda simpatia a pelle. Era come se durante gli interrogatori la realtà delle cose – l’orribile realtà fatta di colpevoli e innocenti, assassini e vittime, frodatori e derubati – perdesse qualche grado della sua violenza: allora in Colnaghi si risvegliava un’empatia minima. Bastava un dettaglio qualsiasi. […] Si rimproverava; a volte avrebbe voluto essere più duro. Ripensò a Doni; anche a Doni piaceva parlare con i criminali, ma per lui era diverso: faceva leva sul loro istintivo bisogno di comprensione per poi fregarli. Invece Colnaghi non riusciva a levarsi di dosso quella pietà confusa.
Colnaghi non si trova solo coinvolto in un una serie di omicidi per mano delle Brigate Rosse nella grigia Milano degli anni Settanta e Ottanta, ma si trova soprattutto coinvolto in una spirale di risentimento, di odio, di vendetta, di guerra tra fratelli. Tanto coinvolto da trovarvi anche la morte.
In Morte di un uomo felice, il magistrato non è l’unico a morire in una guerra fratricida: il racconto, infatti, si interseca, alternando i capitoli, con la storia del padre, Ernesto Colnaghi, partigiano morto per mano fascista durante gli anni della Resistenza. Anche Ernesto Colnaghi rispondeva ad una legge superiore: quella della moralità, che lo aveva portato di necessità a scontrarsi con, per dirla con le parole di Gobetti, l’altra Italia, quella nera. Non che Ernesto Colnaghi fosse con convinzione un rosso. Alla domanda che cosa è il comunismo? difficilmente tra i suoi compagni si riusciva a trovare una risposta chiara, precisa e motivata. Molto più semplicemente, il comunismo indicava, per loro, tutto ciò che non era riconducibile al fascismo.
Fu una di quelle sere che l’Ernesto domandò all’Egidio cosa fosse di preciso il comunismo: una parola che a lui sembrava giusta, sicuro, ma che a dirla tutta non aveva mica capito fino in fondo. La sua formazione era avvenuta in fretta e oralmente, ascoltando prima i colleghi che mugugnavano contro i turni massacranti imposti dal Benelli – un padrone in linea con i fasci da sempre – e poi seduto a terra di fronte all’Egidio […] Quindi, in due parole e per il povero Ernesto Colnaghi che non aveva studiato: cos’era il comunismo? L’Egidio sospirò. Era seduto sui calcagni, le braccia appoggiate alle ginocchia, lievemente sporto in avanti. “Fioeu”, disse, “ti dirò la verità, ma che resti fra noi: non è chiaro manco ai russi. Mi sa che non è chiaro a nessuno”.
Ma questa incompleta definizione poteva essere una giustificazione sufficiente per rischiare la vita, abbandonando una moglie, una figlia e un figlio appena nato? Sì. Era una motivazione sufficiente. Come quel desiderio di giustizia reale che arde nel petto del magistrato Colnaghi e che lo porta a vivere lontano dalla propria famiglia, in un piccolo e spoglio appartamento, più adatto ad uno studente fuori sede o a un lavoratore precario che a un sostituto procuratore.
Doni, Colnaghi magistrato e Colnaghi padre partigiano. Tutti i protagonisti di questi due romanzi di Fontana si interrogano attorno a domande cruciali per la vita di ogni uomo: come si può interrompere l’odio che si scatena tra gli uomini? Come si può morire felici, consapevoli di aver fatto tutto il possibile per rendere il mondo un posto leggermente migliore di come lo si è trovato nascendo? Come consolare chi subisce una perdita ed è incapace di perdonare?
Se noi riusciamo a individuare quel - quella sorta di ideale distorto, diciamo - e a dissolverlo, o quantomeno mostrarne l’assurdità, il problema è risolto alla radice. Altrimenti qual è la soluzione? Li prendiamo tutti, li mettiamo in prigione, e poi? Ne arriveranno altri. Magari diversi, magari più forti, magari no: continuiamo le indagini, prendiamo anche loro e li mettiamo in prigione. Benissimo. E altri ancora ne arriveranno, e ammazzeranno altre persone, e tutti diranno: che ha fatto lo Stato? A che gioco stiamo giocando? E allora ecco pronte altre leggi, ancora più repressive e poliziesche - sai bene come va a finire in questo paese. E il rancore porterà a nuovo rancore, e così via… No, finché non avremo trovato una soluzione all’odio, non finirà mai davvero.
Una soluzione all’odio. Esiste una soluzione all’odio? Esiste un modo per spezzare la catena di omicidi e di vendette? Esiste un modo per non strappare più i padri ai figli? Nel romanzo una risposta si trova, ed è il protagonista ad esporla durante l’interrogatorio con un giovanissimo brigatista, un interrogatorio diventato momento di confronto: «Parlando. Trovandoci a metà strada nei bar, nelle chiese, nelle piazze. Così forse finalmente ci si conosce, tutti insieme, e si capisce che siamo in tanti a volere un’altra Italia».
Una proposta decisamente ottimistica e, forse, fin troppo ingenua. Ma non credo per questo che sia inattuabile e inattuale. Credo, anzi, che la forza di questo romanzo stia proprio nel modo di vivere e di pensare del magistrato: un modo di vivere di profonda umanità, di riconoscimento dell’uomo nell’uomo, di constante desiderio di confronto, di amicizia.
Come è possibile far capire che la vita sacrificata a un ideale di giustizia superiore è una vita davvero eroica? In realtà, Colnaghi junior, il magistrato, non è un eroe. Ce lo dice Fontana nel titolo: è un uomo. Un “semplice” uomo, che ha adempiuto fino alla morte il suo compito di uomo e di magistrato. Un uomo che, a modo suo, fa, come il padre, una resistenza. Nel suo ultimo libro edito da Einaudi Le parole sono importanti, Marco Balzano, altro autore premio Campiello con il Sellerio L’ultimo arrivato, dedica l’ultimo capitolo ad una tra le parole più importanti per la storia italiana e più oggetto di critica e di manipolazione, la parola resistenza, collegandola, inevitabilmente, alla Resistenza. In questo breve e denso capitolo Balzano, dopo aver esaminato l’etimologia della parola e le sfaccettature che essa ha preso dal momento in cui iniziò ad indicare la guerra partigiana italiana, sostiene che la Resistenza finì per indicare non solo l’azione dell’opporre e dell’opporsi al regime ma anche, inevitabilmente e forse inconsciamente, quella del proporre. Scrive Balzano che
il partigiano non è solo uno che si è schierato. I più illuminati, ad esempio, hanno avuto un ruolo fondamentale anche dopo, quando c’è stata da scrivere la Costituzione. Dunque non si tratta solo di avere coraggio, di individuare un nemico. Si tratta di nutrire un’idea di mondo basata sulla pace, la democrazia, la parità di tutti. Chi ha combattuto […] ha dato battaglia ai nazifascisti perché nella sua azione si faceva via via strada una prospettiva - magari confusa, magari nata dal semplice contrasto con quella dittatoriale - che andava oltre la guerra. […] Chi fa la Resistenza riprende le armi per fondare un mondo, non una patria.
Mutato il contesto storico, nel passaggio da storia a letteratura, da non fiction a fiction, alcune intenzioni somiglianti si trovano anche in Giacomo Colnaghi: quelle di opporsi alla realtà dei fatti e di proporre un altro modo non solo di guardare al proprio lavoro ma, più in generale, di affacciarsi alla vita per «essere se stessi dappertutto» (Piero Gobetti).
La precisione rara della scrittura di Fontana fa emergere anche una seconda protagonista, la città di Milano. Non solo sfondo delle vicende umane, non solo scenografia. Milano è lo spazio e il tempo, il tempo del passato e del presente, dove si incontrano e scontrano i magistrati, i giornalisti, gli indagati, le vittime, chi rimane: uomini che, nello stesso contesto, hanno dato alle loro vite impronte differenti:
Svoltò sulla sinistra e intuì la presenza dell’acqua poco distante: il naviglio della Martesana. Si ritrovò sulle rive di un canale, gli argini rovinati, qualche canneto, e un parco alle sue spalle, e uno spiazzo pieno di roulotte. […] Sulle panchine qualche ragazzo con lo zaino fra i piedi: bigiare scuola, fumare sigarette all’aria aperta. Doni scese per un pezzo sul sentiero che costeggiava il naviglio. Dall’altro lato le case si affacciavano sull’acqua, e ogni tanto apparivano orti un po’ desolati, e barili di plastica blu come quelli che usava suo zio per stipare il letame. Tornò su via Padova, il secondo canale che doveva navigare, e fece nuovamente rotta verso il centro. Palazzi e strade persero interesse di colpo. Doveva muoversi di lì. Finì in un reticolo di vie dietro viale Monza. Un’enoteca e un alimentari gestito da due grassi italiani facevano a gara a chi alzava prima la saracinesca. Doni si fermò a bere un tè alla menta in un kebab. Prese la tazza, la portò fuori sui tavolini, e respirò a fondo con il naso - spezie e pelle. […] E forse non c’entrava nulla, e di certo non pagava una sola oncia di violenza, ma guardando la luce invadere il quartiere, mentre si dirigeva verso la fermata di Rovereto per correre a lavoro, riuscì a vedere un frammento di bellezza e verità - e non importava che fosse dolorosa o incattivita: solo lì come una pulsazione attraverso i corpi degli ubriachi e dei pazzi e le bottiglie vuote e i materassi bruciati, solo lì poteva pensare che la verità esisteva ancora.

Centro studi Piero Gobetti

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