Ricordo di Raniero Panzieri
di Cesare Pianciola


Quando arrivò a Torino nel 1959 Raniero aveva 38 anni. Era nato a Roma nel 1921 e morì improvvisamente a Torino a soli 43 anni.
Aveva un passato di dirigente socialista di primo piano: era cresciuto politicamente alla scuola di Rodolfo Morandi; aveva riorganizzato il Psi in Sicilia e partecipato alle occupazioni delle terre; aveva tradotto, insieme alla moglie Pucci Saija, il secondo libro del Capitale e altri testi di Marx e di Engels; dal ’51 al ’57 era stato nella direzione del PSI; poi, nel '57-58, aveva diretto “Mondo Operaio”, nel periodo di grandi fermenti e ripensamenti dopo il terremoto del 1956, facendone una rivista di vivace discussione politico-teorica. Panzieri fu un eccezionale organizzatore di cultura che discusse con  intellettuali come Franco Fortini, Luciano Della Mea, Danilo Montaldi, Gianni Bosio, Gianni Scalia, Vittorio Foa, temi fondamentali della sinistra, quali il partito come strumento della classe, il “controllo operaio”, l'autonomia del sindacato, l'autonomia della ricerca culturale.
Era della sinistra del Psi, ma aveva troppa libertà, troppa indipendenza intellettuale per adattarsi agli equilibri di potere della corrente cui apparteneva. Per un paio d’anni ebbe uno stretto sodalizio con Lucio Libertini (nel febbraio ’58 escono a firma comune le Sette tesi sulla questione del controllo operaio, e alla fine dell’anno le Tredici tesi sulla questione del partito di classe). Poi i maggiorenti della corrente dettero a Libertini la direzione di “Mondo Nuovo”, mentre Panzieri, considerato irrequieto, astratto, intellettualistico, veniva  emarginato.
A Torino Panzieri andò, con l’aiuto di Giovanni Pirelli, a lavorare da Einaudi.
Fece un  lavoro molto importante, sia per la collana “Nuova società”, sia per i “Libri bianchi”: fece uscire di Daniel Mothé, Diario di un operaio alla Renault, pubblicò le Autobiografie della leggera di Montaldi, impostò vari libri che usciranno dopo il suo licenziamento nell'ottobre 1963 (ciò rende l'accusa einaudiana di scarso rendimento per lo meno ridicola).
All'inizio – come  si legge nelle lettere – si sentiva in esilio. Era “triste ed esasperato”. La città gli appariva “freddo, smog, monopolio”. Gli einaudiani: “merluzzi lessi in frigorifero”. Trovava simpatico Calvino, il quale gli rese questo omaggio postumo in una lettera a Luca Baranelli del 24 gennaio 1985:
 
Con me, pur nell’abituale sarcasmo polemico della conversazione, Raniero si guardava bene dal farmi prediche ideologiche come tanti amici d’allora (per esempio Fortini) usavano farmi; da quel punto di vista mi dava per irrecuperabile; mi incitava invece a esprimere me stesso fino in fondo, a rappresentare il mondo come lo vedevo. Questo atteggiamento corrispondeva al suo abituale stile di giudizio intellettuale, in cui la sua finezza, la sua aspirazione a una qualità assoluta erano sempre filtrate dal suo ironico distacco, e dalla soddisfazione di vedere le cose e le persone come sono e non come si vorrebbe che fossero.
 
A Torino ricominciava pressoché da capo. Qui visse il risveglio della classe operaia, che non era più quella “professionale” ed eroicamente resistente degli anni ’50, e si stava ingrossando e trasformando con la grande immigrazione di giovane forza-lavoro dal Sud.
Il 30 settembre1961 esce il primo numero dei "Quaderni rossi". Ne usciranno sei numeri fino al 1965. Presto i nodi vengono al pettine: si  consuma la rottura con i sindacalisti che avevano collaborato al primo numero della rivista; nel ’63 c’è la scissione di “Classe operaia”. Le strade di Panzieri e di Tronti si dividono in “operaismi” molto differenti.
Come scrisse Vittorio Rieser, gli aspetti principali dei “Quaderni rossi” sono stati tre: un’analisi del capitalismo come formazione dinamica in cui la lotta di classe è più forte proprio ai livelli più avanzati; il rifiuto della tesi dell’integrazione della classe operaia nel neocapitalismo; ma, “innanzitutto, un elemento teorico, cioè un ritorno a Marx […] come strumento molto più attuale per l’analisi del capitalismo di allora che non la vulgata del marxismo che si era tramandata nei partiti comunisti”. Vittorio Foa affermò che Panzieri reintrodusse il marxismo teorico in Italia non in forma scolastica o accademica, ma militante.
Aveva una straordinaria capacità maieutica nei confronti dei più giovani e mi è sempre piaciuta la definizione di “Socrate socialista” datagli da Merli.
Nell’archivio del Centro Gobetti ci sono molte belle foto scattate da Carla di riunioni con Panzieri intorno al grande tavolo sotto il ritratto del genius loci dipinto da Felice Casorati. E non era incongrua la presenza in effigie di chi nel 1924 aveva detto essere giunta L’ora di Marx e aveva scritto sull’ultimo numero de “La Rivoluzione Liberale”, poco prima di andare a morire in esilio a Parigi: “la grande industria non si può sviluppare senza determinare un contemporaneo sviluppo delle forze del proletariato, e della sua capacità di difesa e di conquista. Questa è la chiave di tutta la storia europea futura...”. Con Panzieri abbiamo vissuto un tratto indimenticabile di quella storia.

Centro studi Piero Gobetti

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