Per Patrick Zaki: una situazione disperata per lo studente detenuto e i diritti umani in Egitto

di Chiara Loschi - Assegnista di Ricerca presso il Dipartimento di Filosofia e Comunicazione FILCOM, Università di Bologna.

Mentre il 10 dicembre ricorreva il 72esimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, nella sponda sud del Mediterraneo, esiste un regime autoritario che ignora i diritti umani, li seppellisce nelle carceri insieme agli attivisti e non ha mai interrotto l’esecuzione di condanne a morte: è il regime egiziano guidato da Abdel Fattah al Sisi. Tra i prigionieri c’è Patrick George Zaki, in attesa di giudizio da dieci mesi.
Patrick George Zaki, studente egiziano a Bologna, viene arrestato il 7 febbraio 2020 al suo arrivo all’aeroporto del Cairo. Patrick in quel momento ha 28 anni, è uno studente del master internazionale GEMMA dell’Università di Bologna finanziato dal programma Erasmus Mundus dell’Unione europea, e stava rientrando per una breve vacanza. Patrick è anche un attivista dell’organizzazione non governativa egiziana Egyptian Initiative for Personal Rights (EIPR; “Iniziativa egiziana per i diritti della persona”). Il 7 febbraio, dopo essere stato preso in “custodia” al suo arrivo in aeroporto, scompare per 24 ore durante le quali viene recluso in due luoghi di detenzione non ufficiali dell’Agenzia per la sicurezza nazionale. Secondo il primo comunicato dell’organizzazione EIPR, Patrick è comparso in udienza davanti a un pubblico ministero l’8 febbraio. L’interrogatorio riguarda il suo attivismo e l’EIPR, la sua presenza in Italia, i suoi presunti contatti con la famiglia di Giulio Regeni. Le accuse si basano su alcuni post pubblicati da un account Facebook che gli viene attribuito, e includono “diffusione di notizie false”, “sovvertimento dello Stato”, “incitamento alla protesta” e terrorismo. Secondo i suoi legali e l’associazione, Patrick è stato “picchiato e torturato” anche con elettroshock. La sua custodia cautelare in quell’udienza viene prolungata, diventando una costante, stessa misura utilizzata senza limiti di tempo contro ogni oppositore e attivista. L’8 dicembre scorso, dopo l’ennesimo rinvio, durante un’udienza il tribunale antiterrorismo del Cairo rinnova la detenzione dello studente per altri 45 giorni, nel carcere di Tora dove è stato trasferito il 5 marzo.
In pratica, Patrick è in carcere per il suo attivismo in favore dei diritti umani. Durante l’udienza di dicembre, Patrick e i suoi legali dichiarano nuovamente che i post e l’account Facebook su cui si basano le accuse sono falsi. Per queste accuse, secondo Amnesty International, lo studente rischia fino a 25 anni di carcere. Patrick è asmatico, soffre di dolori alla schiena come ha scritto ai genitori in una lettera pubblicata il 12 dicembre sulla pagina Facebook “Patrick Libero”. Il carcere di Tora in cui è rinchiuso viene definito dagli attivisti egiziani “una tomba di cemento”, simbolo del terrore del regime egiziano. A dicembre, dal carcere, Patrick ha scritto lettere alla famiglia con parole dolorose, preoccupanti, che fanno temere per il suo stato di salute fisica e mentale. Con una pandemia mondiale in corso, la sua situazione e quella di molti altri attivisti incarcerati è sempre più inquietante.
 
Amnesty International, insieme all’Università di Bologna, ha chiesto all’ambasciatore italiano al Cairo, Giampaolo Cantini, di fare pressione sul governo egiziano affinché Patrick sia rilasciato il prima possibile o gli sia almeno concesso di scontare la detenzione preventiva ai domiciliari. Il rettore dell’Università di Bologna Francesco Ubertini ha scritto all’ambasciatore dell’Egitto in Italia, Hisham Mohamed Moustafa Badr, per chiedere che Patrick possa tornare a seguire le lezioni del master GEMMA. Le due missive non hanno conseguito risultati.
La vicenda di Patrick George Zaki richiama l’orribile storia di Giulio Regeni, arrestato al Cairo il 25 gennaio 2016, e il cui corpo viene rinvenuto il 3 febbraio sull’autostrada che collega la capitale con Alessandria d’Egitto. Per il rapimento e l’omicidio, il 10 dicembre la procura di Roma ha ufficialmente incriminato quattro agenti dei servizi segreti egiziani: Tariq Saber, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Capt Uhsam Helmi, Maj Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. I primi tre saranno indagati per sequestro di persona pluriaggravato, mentre Maj Magdi Ibrahim Abdelal Sharif è anche accusato di lesioni personali aggravate e di concorso in omicidio aggravato.
 
Cosa succede in Egitto?
 
Il caso di Patrick non è un caso isolato, così come non lo è la morte di Giulio Regeni. Nell’Egitto del generale Abdel Fattah al Sisi, molti giornalisti, avvocati, parlamentari, attivisti, ricercatori (anche europei) sono stati arrestati direttamente al loro arrivo all’aeroporto. Secondo stime elaborate da ONG come Amnesty International e Human Rights Watch con il supporto di organizzazioni egiziane, dal luglio 2013 il regime ha compiuto migliaia di arresti, arrivando anche a 2000 arresti in un solo giorno nel settembre 2019, omicidi di massa (3.185 persone sarebbero state uccise dalle forze di sicurezza), ha intensificato le condanne a morte (contro 2.433 persone, 1.884 delle quali attraverso processi collettivi, inclusi 11 bambini). Almeno 766 persone sarebbero morte in regime di detenzione per tortura, negligenza o uccisione diretta. Questi sono i numeri noti: i dati effettivi sono probabilmente di gran lunga peggiori. Le proteste non mancano, tutte represse con arresti e incarcerazioni.
Abdel Fattah al-Sisi è arrivato al potere nel 2014, in seguito al colpo di stato militare delle Forze Armate Nazionali da lui guidate il 3 luglio 2013, deponendo il leader dei Fratelli Musulmani, nonché presidente eletto nel 2012, Mohamed Morsi. Successivamente, in nome della sicurezza nazionale e contro il “terrorismo” pubblicamente associato all’attività politica della fratellanza musulmana, le autorità egiziane hanno operato una sistematica repressione degli oppositori facenti parte dell’intero spettro politico: dai Fratelli Musulmani agli attivisti di sinistra o liberali fino ai sostenitori dell’ex presidente Hosni Mubarak. Chiunque esprima critiche contro la situazione economica o sociale del paese è automaticamente in una situazione di pericolo.
Le accuse legate al “terrorismo” sono attribuite strumentalmente e basate su indagini di polizia. I detenuti possono restare in custodia cautelare per mesi o anni, e sono soggetti a sparizioni forzate per settimane o mesi, prima di essere portati dinanzi al Procuratore supremo per la sicurezza dello Stato.
La repressione è esercitata non solo attraverso la violenza arbitraria ma anche tramite un quadro normativo in contante evoluzione, il cui obbiettivo è il controllo delle organizzazioni egiziane e dei loro legami con l’estero. Nel 2014, il Ministero della Solidarietà Sociale ha imposto a tutte le organizzazioni presenti in Egitto di registrarsi presso il governo o subire azioni legali. Negli anni successivi, altri giudici inquirenti hanno disposto a carico di membri e dirigenti di altre ONG il congelamento di beni e il divieto di spostamenti; si è arrivati a veri e propri sequestri da parte di agenti in borghese contro blogger, giornalisti, attivisti, interrogatori su finanziamenti e attività, intimidazioni e campagne denigratorie da parte di media egiziani.
Nel 2016 la repressione nei confronti dei difensori dei diritti umani si è intensificata. La legge 70 del 2017 impone ulteriori restrizioni, istituendo un’autorità nazionale per la supervisione delle organizzazioni non governative estere e dei loro rapporti con le autorità egiziane, che include rappresentanti dei massimi organismi di sicurezza nazionale egiziani, nonché rappresentanti del ministero degli Affari esteri e della banca centrale egiziana. Di fatto, conferisce alle autorità ampi poteri per sciogliere le ONG e sottoporre il loro personale a procedimenti penali basati su termini vaghi fra cui “danneggiare l'unità nazionale e disturbare l’ordine pubblico”. Fra le restrizioni vi è anche il divieto di effettuare ricerche e interviste senza il permesso del governo, costringendo le ONG ad adattare le loro attività alle priorità e ai piani dell’esecutivo o a rischiare fino a cinque anni di carcere.
 
 
E in Europa?
 
Approfittando della “crisi dei rifugiati” e degli attacchi terroristici in Europa, il regime egiziano ha rinsaldato la cooperazione con l’UE e gli Stati europei, scommettendo su un modello di reciproca stabilità. Al Sisi ha cioè convinto le principali diplomazie europee che la stabilità del suo paese rappresenti un elemento insostituibile nella lotta contro il terrorismo islamista e garantisca il controllo delle migrazioni in Europa. Si tratta di argomentazioni relativamente infondate, dal momento che i principali flussi migratori passano per altri paesi, come la Libia, e che l’islamismo radicale che minaccia gli Stati europei non ha solide basi in Egitto.
In questo modo, l’esigenza degli Stati europei di stringere e rinforzare rapporti economici con un “paese stabile” in Nord Africa, assicurandosi l’apparente controllo delle rotte migratorie, incrocia il bisogno di stabilità politica da parte di Al Sisi. Così avviene che negli stessi giorni in cui al Cairo si attende l’udienza per Patrick, detenuto da dieci mesi in condizioni degradanti e su accuse strumentali, il 7 dicembre il presidente della repubblica francese Emmanuel Macron riceve e decora Al Sisi con la Gran Croce della Légion d’Honneur, il più alto riconoscimento di Stato francese, in una cerimonia ristretta a cui solo i media egiziani hanno potuto assistere.
 
Questo scenario ricorda gli anni precedenti il 2011, quando i governi europei non esitavano a stringere accordi economici ma anche progetti per la promozione di processi democratici con i regimi autoritari del Nord Africa, i quali in realtà dimostravano scarso interesse ad accettare elezioni libere, libertà di parola e di associazionismo, nonché riforme economiche. Oggi l’Egitto ha perso a livello istituzionale lo spirito delle rivoluzioni arabe che aveva provocato la caduta di Hosni Mubarak, ed è inserito in un contesto regionale assai incerto in cui solo la Tunisia sembra avere in parte realizzato le aspirazioni delle sollevazioni popolari che avevano caratterizzato le “primavere” del 2011.
Come dichiarano gli attivisti egiziani, il paese è una prigione a cielo aperto, intrappolato da un regime autoritario che non intende rispettare i diritti umani fondamentali e non esita a sfruttare la sua posizione strategica, depistando e nascondendo prove dei crimini dei propri apparati di sicurezza. Un regime che tuttavia sa mostrare anche una allarmante debolezza della diplomazia europea - e particolarmente della diplomazia italiana che non mette in opera tutti gli strumenti per assicurare alla giustizia gli assassini di Giulio Regeni e per ottenere la libertà di Patrick George Zaki.

 

Centro studi Piero Gobetti

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