Camilla Ravera e Antonio Gramsci

di Ada Prospero Marchesini Gobetti


[Da Ada Prospero Marchesini Gobetti, La vita, in Camilla Ravera, Vita in carcere e al confino, Guanda, Parma 1969, pp. 19-23. A cura di Giulia Madau e Pietro Polito]
 
 
Camilla vide Gramsci per la prima volta nel 1919 a un’assemblea della Sezione torinese del Partito socialista. Se l’immaginava diverso, come sempre accade delle persone di cui s’è tanto sentito parlare senza conoscerle personalmente, e rimase un po’ stupita quando lo vide seduto al tavolo della presidenza tra Togliatti e Terracini con cui scherzava piacevolmente.
La sala della Camera del lavoro era gremitissima: c’era gente seduta persino sulle finestre; in fondo, un gruppo d’anarchici che, quando parlava Gramsci, erano sempre presenti.
 
Mi fece una grande impressione per il modo in cui parlava, così diverso da quello di tutti gli altri socialisti. Discorreva col tono naturale e semplice di chi parli a un amico, con un tono di voce basso perché non aveva un gran volume di voce. E c’era un gran silenzio nella sala: nessuno voleva perdere neanche una parola. La seconda impressione che ebbi fu quella d’una grande limpidezza: diceva cose complicatissime, ma con tanta semplicità e chiarezza che tutti – e si trattava per la grande maggioranza di operai delle fabbriche – lo seguivano con la massima attenzione. Si sentiva in lui un’intelligenza straordinariamente lucida e chiara e un’estrema semplicità umana: quella semplicità possibile soltanto quando si abbia dentro una grande complessità, e si sappia tirarne fuori l’essenziale, arrivando a una sintesi che pare semplice perché limpida e tersa: quella semplicità che ti fa dire subito: «Questo è un uomo eccezionale».
 
Da quel momento, a tutte le discussioni a cui partecipò nel seno del Partito, Camilla, che già seguiva l’«Ordine nuovo» settimanale, votò sempre per il gruppo di Gramsci, che prese prima il nome di «Gruppo di educazione comunista», poi di «Gruppo dell’Ordine nuovo». Non partecipò, non essendovi delegata, al Congresso di Livorno, ma al II Congresso, tenutosi a Roma un anno dopo la fondazione del Partito comunista, fece un intervento a una riunione di donne comuniste, presieduta proprio da Gramsci.
Quando, il 1° gennaio 1921, l’«Ordine nuovo» divenne quotidiano, Gramsci le affidò, pur senza conoscerla personalmente, la rubrica «Tribuna delle donne». Ogni settimana, Camilla scriveva 5 o 6 cartelle a macchina, a volte in forma d’intervista su questioni particolari, a volte impostando problemi che le sembrava opportuno trattare; poi le metteva in una busta indirizzata a «La tribuna delle donne» e le mandava, per mezzo di Cesare, alla redazione dell’«Ordine nuovo», dove non era mai stata.
La Ravera non era allora né fu mai femminista nel senso tradizionale del termine. La sua preparazione intellettuale, compiuta sotto la guida paterna e attraverso letture e studi severi, l’aveva portata naturalmente a una visione della vita in cui non c’era posto per la discriminazione di sesso. Ma, attentissima alla realtà, si rendeva tuttavia conto dell’esistenza di problemi tipicamente femminili, legati non tanto alle qualità intrinseche della donna, quanto alla posizione che essa occupa in una determinata società.
 
Nel luglio del 1921, Gramsci la fece chiamare: voleva parlarle. Non credo avventato supporre che Camilla rispondesse all’invito con volenterosa prontezza e con un’ansia non priva di preoccupazione; e che Gramsci fosse colpito dalla sua timida grazia e dalla sua serietà.
 
Mi venne incontro dicendo: «In fondo io la conosco già». Gramsci dava a tutti del tu o del lei; il voi non lo volle mai usare anche se allora era pratica comune del Partito socialista. «Non soltanto la vedo nelle riunioni, ma leggo quello che lei scrive». Prima di pubblicare infatti leggeva tutto con grande attenzione. «Vorrei però che ci conoscessimo meglio: perché non viene mai in redazione?».
Tirai fuori una serie di motivi: la famiglia, la scuola, la mia timidezza. Ma Gramsci non si fece convincere: continuò a dire che dovevo frequentare la redazione e discutere con lui non solo i problemi della «Tribuna delle donne», ma anche i problemi politici generali; e concluse con una proposta che mi riempì al tempo stesso d’orgoglio e di sgomento: «Le chiedo formalmente d’entrare a far parte della redazione dell’“Ordine nuovo”».
 
Nella sua estrema modestia Camilla non s’aspettava certo quella proposta e per un momento esitò ad accettare, anche se intuì immediatamente ch’era quella la via da seguire, la conclusione logica della preparazione e maturazione di quegli anni: le spiaceva inoltre lasciare la scuola che faceva assai volentieri. Ma, alle insistenze di Gramsci e di Leonetti, con cui quella sera andò a cena in una trattoria frequentata spesso dai compagni, promise di pensarci e di parlarne coi suoi.
Prese infine una decisione. S’era ormai ai primi di luglio: poteva incominciare il suo lavoro di redattrice nei mesi di vacanza; poi si sarebbe visto se doveva continuare.
Compito di Camilla all’«Ordine nuovo» era di preparare le notizie di carattere internazionale sulla base dei dati forniti dalle agenzie e dalla stampa. Dopo la chiamata di Togliatti a Roma per dirigervi il quotidiano «Il comunista», organo centrale del P.C.d’I., la redazione dell’«Ordine nuovo» era rimasta un po’ povera nel settore della politica estera. La stampa francese, sotto la guida diretta di Gramsci, era affidata a Pia Carena. Camilla doveva occuparsi soprattutto della stampa tedesca comunista, leggendo regolarmente «Die rote Fahne» e altri giornali. Continuò inoltre a compilare la «Tribuna delle donne», inserendovi una quantità di notizie e la traduzione di molto materiale proveniente dall’estero. Scrisse anche qualche articolo firmato: è suo per esempio l’articolo di fondo del numero del 6 aprile 1922, col titolo La conferenza delle donne comuniste in cui il problema femminile è impostato in modo fondamentalmente valido oggi ancora.
 
La questione femminile non è per noi soltanto una questione morale; né si deve pensare di risolverla con l’affermazione o la dimostrazione che la donna non è inferiore all’uomo o con la richiesta di equiparazione dei due sessi, quale è intesa dalle femministe borghesi.
I comunisti pongono il problema sopra delle basi concrete, materialistiche; essi vogliono realizzare, per la donna come per l’uomo, l’indipendenza economica, e risolvono in modo concreto il problema femminile riconoscendo alle particolari funzioni e ai particolari uffici della donna (la maternità, la cura dei bambini e della casa) il valore d’una funzione e d’una produzione sociale: essi sopprimono cioè veramente le cause originarie della dipendenza della donna dal capitalista e dall’uomo; mentre con una migliore organizzazione del lavoro domestico tendono a liberare la donna dalla schiavitù della casa.
 
I suoi rapporti con Gramsci divennero quotidiani: di tutto parlavano, di tutto discutevano, con una schiettezza fondata su reciproca stima e fiducia. Oltre all’intelligenza, Camilla imparò ad ammirare nel compagno di lavoro il calore umano, la capacità di comunicare con gli altri.
 
Il suo modo di contatto coi compagni mi ricordava veramente Socrate. In quel suo sgabuzzino pieno di giornali e di libri conversava passeggiando e fumando sigarette in continuazione: cogliendo a volte piccoli particolari e da questi risalendo a problemi più generali, presentava il suo pensiero come se fosse scaturito dalla mente di tutti, mentre era stato lui a suscitarlo, a chiarirlo. Nel lavoro era severissimo: intransigente prima di tutto con se stesso, non sopportava nessuna manifestazione, anche minima, di leggerezza morale, di disonestà intellettuale. Con chi le commetteva poteva essere, a volte, molto duro e addirittura aspro, salvo a riprender dopo, quasi subito, il tono amichevole e fraterno. Apertissimo al colloquio, non mai offensivo verso l’interlocutore, convinto che da qualsiasi dibattito potesse sempre venir fuori un risultato positivo, sapeva però mantenere, per quel che riguardava i principî, un’incrollabile fermezza.
 
A questa lezione di ferma intransigenza nelle idee, appresa alla scuola gramsciana, Camilla seppe però sempre unire quella generosa indulgenza per gli uomini, che rimase, attraverso tante e diverse vicende, la legge fondamentale della sua vita.
 

Centro studi Piero Gobetti

Via Antonio Fabro, 6
10122 Torino
c.f 80085610014
 
Tel. +39 011 531429
Mail. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Pec. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Iscriviti alla Newsletter

Inserisci la tua mail e sarai sempre
aggiornato sulle nostre attività!