Quale pacifismo?

Sull’utilità delle parole gratuite 

 Antonio Maria La Porta


Pace: pacifismo ideale, pacifismo attivo, pacifismo economico, pacifismo sociale, pacifismo giuridico. Guerra: guerra ibrida, guerra lampo, guerra di difesa, guerra di annessione, guerra umanitaria, guerra fredda, guerra civile, guerra giusta.

Le parole come le piante hanno radici, significati linguistici originari e insopprimibili. La guerra mossa dalla Russia all’Ucraina ci ha posto ancora una volta di fronte ad un deliberato processo di manipolazione del linguaggio. Questo uso, abuso e tradimento delle parole rappresenta –come rilevato già da Hannah Arendt[1]– una forma di dominio linguistico che in passato è stato il fine della propaganda totalitarista, ma la cui essenza è ancora presente nelle autocrazie contemporanee e finanche nelle democrazie liberali. Non sorprende perciò che la comunicazione politica russa sia intrisa di un lessico volto a sviare e svuotare le parole di ogni forza simbolica e affettiva. Tramite l’uso di tecnicismi, quindi, l’invasione armata della Russia o semplicemente la guerra è divenuta una “operazione militare speciale”. Non rappresenta di certo una novità l’uso di tecnicismi nel tentativo di far accettare un evento così disumano come la guerra. Nella storia dell’umanità, infatti, si è sempre tentato di giustificare la guerra tramite l’uso di espressioni composte che rendessero tollerabile il carico emotivo e simbolico della parola “guerra”. I vari tipi di guerra elencati al principio –pur se ragionati e mascherati da scientismo– incarnano sempre e inevitabilmente un fine, un disvalore fondamentale, una disumanità che non può celarsi in quanto connaturale alla stessa parola guerra.  

Ciò che oggi davvero sorprende è invece il ricorso alla manipolazione linguistica nelle nostre democrazie liberali. Nell’opinione pubblica italiana, per esempio, assistiamo ad un vero e proprio attacco e (mis)interpretazione nei confronti della parola pace e del pacifismo. Si vuol far rientrare e isolare la parola pace e il pacifismo nella categoria del discorso inutile, quel tipo di discorso che viene criticato perché fatto da parole a-tecniche, irreali e gratuite. Il pacifismo dunque come discorso inutile viene contrapposto alla sfera dei discorsi tecnici e soprattutto realistici di una certa classe di comunicatori sociali: alcuni di quei politici, giornalisti, e analisti geopolitici che si destreggiano con lucidità invidiabile in analisi tecnico militari, in previsioni razionali e ponderate, in pronostici sul prossimo presente privi però di ogni visione ideale sul futuro. La parola pace e la sua declinazione in pacifismo è invece tra quelle parole da tutelare e da salvaguardare proprio per il suo fine affettivo contrapposto al fine anaffettivo della guerra. La pace rientra nel novero di quelle parole simboliche che come affermava Pietro Barcellona: “approfondiscono la relazione affettiva con le altre persone, con la natura e con l’universo”. Oggi però le parole che non guardano solo all’immediato ma prospettano una visione del mondo “sono irrise come manifestazione di follia, nonostante l’intero pianeta sia ossessionato dalla previsione di cosa accadrà nel prossimo futuro”. [2]

C’è chi afferma di voler fare la pace mantenendo un equilibrio tra potenze militari, che non è altro che un equilibrio tra volontà di potenza, una non-guerra momentanea. C’è chi deride il pacifismo e la parola pace pur affermando di avere lo stesso obiettivo, un fine che tuttavia –essendo perseguito direttamente o indirettamente manu militari– non potrà mai definirsi simbolicamente come pace e metodologicamente come pacifismo. Si utilizzano, quindi, sempre più termini sostitutivi come tregua o fine delle ostilità pur di non andare alla radice simbolica della parola pace: una parola che sarà anche una parola gratuita –e che come tale non può essere racchiusa all’interno dei saperi specialistici– ma che sfuggendo alla logica del discorso tecno-scientifico è invece portatrice di una spiritualità irriducibile, di un sapere affettivo[3], di un modus operandi intransigente ma mite, in definitiva, di uno stare al mondo.

Nel dibattito pubblico italiano c’è anche chi ha tentato di polarizzare e dividere il pacifismo e i pacifisti tra “pragmatici” e “fondamentalisti” o ideologi [4], dimenticando però che la pace al contrario della guerra mantiene sempre una aspirazione ideale che non può sopprimersi. Forse è proprio questa irriducibile forza relazionale, questa potenza vitale, ciò che infastidisce della parola pace e del pacifismo e per questo chi ne fa uso viene tacciato di retorica e inutilità. L’utilità della pace risiede invece nella sua razón vital [5] che è quella di salvare vite, pertanto non esiste una divisione tra pacifismo ideale e pacifismo pragmatico perché entrambi ne condividono il fine alto e al contempo utile della salvaguardia delle vite umane. Il pacifismo non è infatti una mera ideologia ma un metodo, un modus vivendi, un cammino dotato di una meta da perseguire nella realtà con una visione valoriale sul presente e sul futuro. Volendo anche accettare il carattere retorico del pacifismo bisogna evidenziare che una parte della retorica consiste proprio nell’argomentare per persuadere. Il pacifismo infatti si basa anche su una continua ricerca di argomenti per convincere e ottenere un fine comune: la pace.  

Il pacifismo quindi non è un monolite, ammette molte vie che non sono però in contrasto fra loro. Quando si tenta invece di contrapporle si rischia –deliberatamente o meno– che i pacifismi si annullino fra loro. Le diverse anime del pacifismo devono invece reggersi insieme, ciascuna con i propri argomenti dovrebbe sostenere un pacifismo attivo, costruttivo, propositivo, un pacifismo dialogante che difenda l’ideale della pace, ma che sia pronto anche a fare i conti con la realtà e con le necessità momentanee di difesa e resistenza (nelle sue diverse modalità non solo esclusivamente armate). In questo senso anche Bobbio pur essendo un convinto sostenitore della mediazione giuridica, facendo proprio l’ideale kantiano della pace perpetua, riteneva che il solo pacifismo giuridico –che vede nella regolazione giuridica dei conflitti il suo argomento principale– non fosse di per sé sufficiente all’ottenimento della pace. Del resto la stessa guerra rappresenta in un certo senso una sospensione del diritto, un fallimento dei rapporti fiduciari che configurano il Diritto internazionale.

Il giurista Celso Lafer (già Ministro degli esteri del governo brasiliano) in un saggio dedicato al pacifismo di Bobbio[6], evidenziando anche alcuni limiti, ne risalta specialmente l’ars combinatoria. Come ha già rilevato Pietro Polito, il pacifismo politico democratico di Bobbio si basa infatti su un nesso basilare tra democrazia e diritti umani[7]. Il filosofo piemontese considerava inoltre imprescindibile una combinazione, un’interdipendenza tra i vari pacifismi. Anche il pacifismo giuridico attuale quindi deve o dovrebbe appoggiarsi e accompagnarsi agli argomenti degli “altri” pacifismi che sono stati illustrati dallo stesso Bobbio in molti dei suoi lavori: il pacifismo sociale che vede nella disuguaglianza la causa delle guerre; il pacifismo economico che individua nel protezionismo una delle ragioni dei conflitti e per questo difende il libero commercio e ravvisa nell’economia una funzione promozionale (non accettando perciò il carattere sanzionatorio di alcune misure, difendendo invece gli argomenti economici dell’utilità della pace).

Quale comune denominatore dei vari pacifismi dovrebbe inoltre manifestarsi anche un pacifismo strumentale, quel tipo di pacifismo che dal punto di vista istituzionale vede nella diplomazia, nella ricerca del terzo al di sopra delle parti, la principale via del dialogo e della negoziazione[8]. Una mediazione quindi che contempli anche dei compromessi strumentali alla pace, ma che dovrebbe però essere sempre sostenuta e accompagnata dall’atteggiamento e dai valori non violenti degli uomini, dei cittadini e delle loro organizzazioni. Infine, ma non per ultimo come importanza, tra i pacifismi trattati da Bobbio è cruciale il pacifismo dei fini o pacifismo ideale che vede nella pedagogia, nell’educazione alla pace il cammino per conseguire e consolidare le relazioni di fiducia nella società: sia in ambito interno che internazionale. [9]

Alla domanda quale pacifismo ribadirei, in definitiva, che non è necessaria e veritiera una concezione unica del pacifismo, né un pacifismo che prevalga sugli altri. Nel dibattito pubblico è indispensabile che i pacifismi offrano i loro vari argomenti utili nelle risoluzioni dei conflitti. Argomenti, anche pratici e persino utilitaristici, che però non tradiscano la radice e il fine stesso della parola pace: il rispetto e la salvaguardia delle vite umane. In questo senso tutti i pacifismi a loro modo sono “pragmatici”, non perché freddamente realisti ma perché perseguono il fine più utile alla sopravvivenza del genere umano. Per questa ragione tutti i pacifismi sono al contempo dei pacifismi ideali e proprio per questo il pacifismo sarà sempre e inevitabilmente “ex parte populi”, dalla parte dell’uomo, strumentale alla pace e non alla guerra.

La parola pace rientra allora tra quelle che sono state definite come parole gratuite, quelle parole che potrebbero sembrare inutili nell’immediato, ma che sono portatrici di emozioni, di valori, di visioni, di profezie. La parola pace è come un dono, è –come direbbe Pasolini– una parola sacra, libera dai conformismi sociali, dall’etica del successo, dall’efficacia a tutti i costi. La pace è una parola gratuita perché non pretende nulla in cambio, è disinteressata perché non insegue una ricompensa, è una di quelle parole che ricerca il compromesso solo per un’utilità comune e non di parte. Non si rinnegherebbe la realtà sostenendo, in conclusione, che il pacifismo ha e avrà sempre una radice insopprimibile nella parola pace[10]. Qualsiasi tipo di guerra ne è l’antitesi. Non esisterà mai un pacifismo militarista: un pacifismo armato pur pragmatico che sia non sarà mai un autentico pacifismo.

 

Note:

[1] Hannah Arendt, Che cos'è la politica?, Milano, Edizioni di Comunità, 1995.

[2] Pietro Barcellona, Parolepotere. Il nuovo linguaggio del conflitto sociale, Castelvecchi, Roma, 2013, pp. 99 e ss.

[3] Pietro Barcellona, Elogio del discorso inutile: la parola gratuita, Bari, Dedalo, 2010.

[4]Angelo Panebianco, La nuova difesa e i vecchi pacifismi, “Corriere della Sera”, 20 marzo 2022. https://www.corriere.it/editoriali/22_marzo_20/nuova-difesa-vecchi-pacifismi-4ae18d58-a893-11ec-9fb7-9b041ce9b963.shtml   

[5] José Ortega y Gasset, L'uomo e la gente, Milano, Giuffre, 1978

[6] Celso Lafer, Paz e guerra no terceiro milenio: os ideais de Bobbio, balanço e perspectiva, in: G. Tosi, Democracia, direitos humanos, guerra e paz, João Pessoa Editora da UFPB, 2013, 2 vol., pp. 305-319.

[7] Pietro Polito, Per non finire come pesci nella rete, in “Cronache di Pace” del Centro Studi Piero Gobetti. https://www.centrogobetti.it/rubriche/966-cronache-di-pace.html

[8] Norberto Bobbio, II terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e la guerra, a cura di P. Polito, Torino, Edizioni Sonda, 1989.

[9] Norberto Bobbio, II problema della pace e le vie della guerra, Bologna, Il Mulino, 1979.

[10] Marco Revelli, L’irresistibile vertigine della guerra, “il manifesto”, 3 aprile 2022. https://ilmanifesto.it/lirresistibile-vertigine-della-guerra

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