La democrazia è partecipazione

di Pietro Polito

Una campagna elettorale in pieno agosto tra gli ombrelloni e le prime elezioni che nella storia della Repubblica si svolgono in autunno, il prossimo 25 settembre, non possono non far venire in mente la straordinaria e preveggente canzone Le elezioni, autore con Alessandro Luporini e interprete magistrale Giorgio Gaber. Dall’album Libertà Obbligatoria 1976/1977, Il Teatro Canzone 1991/1992.  “Generalmente”, ironizzava Gaber, le elezioni si svolgevano “una domenica di sole / una mattina molto bella / in cui ti senti più pulito” e “anche la strada è più pulita / senza schiamazzi e senza suoni”; si veniva afferrati da “una curiosa sensazione / che rassomiglia un po' a un esame / di cui non senti la paura”; ma già allora ci voleva “un certo sforzo / per presentarmi con coraggio” alle urne; c'era “un gran silenzio” nel seggio, dove “si respirava “un senso d'ordine e di pulizia”; dopo avere fatto “un segno sul mio segno”, si aveva la tentazione di portarsi via la “bellissima matita” / lunga, sottile, marroncina / perfettamente temperata”.  Una volta uscito dalla scuola, soddisfatto, l’elettore descritto con affetto dal grande Gaber si compiaceva: “È proprio vero che fa bene / Un po' di partecipazione”.

La democrazia ha due facce fondamentali che sono tra loro convergenti e complemenetati: la democrazia come nonviolenza e la democrazia come partecipazione (che è l’argomento di questo articolo). Poiché nella trattatistica e nella pubblicistica corrente sulla democrazia, non è consueto trovare citato L’obbedienza non è più una virtù di Lorenzo Milani, mi sembra significativo segnalare che in quell’aureo libretto il priore di Barbiana, giudicato e condannato per “apologia di reato” di obiezione di coscienza, richiama l’attenzione su entrambi gli aspetti, da un lato rivendicando il diritto dei poveri a “combattere” i ricchi con “le uniche armi” che egli approva, “nobili e incruente” che sono “lo sciopero e il voto”, dall’altro affermando che la democrazia “rappresenta il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, libertà e dignità umana ai poveri”[1].

Accanto alla soluzione pacifica dei conflitti politici e sociali, l’altro obiettivo che la democrazia si prefigge attraverso le regole del gioco è la partecipazione dei cittadini e delle cittadine alla formazione delle decisioni collettive. Come insegna Norberto Bobbio: “La democrazia ha bisogno, più di qualunque altra forma di governo, di cittadini attivi. Non sa che farsene di cittadini passivi, apatici, indifferenti, che si occupano soltanto dei propri affari comuni”[2].

Andiamo al voto con “una pessima legge elettorale che fa comodo a tutti i partiti” che priva i cittadini del diritto di scegliere una parte cospicua dei propri rappresentanti” con la conseguenza di esprimere “parlamentari vagolanti da un gruppo parlamentare all’altro, alla ricerca di un padrone in grado di assicurare la loro carriera futura, senza rispondere agli elettori in un ambito territorialmente definito; privi del potere che ne deriva, quello proveniente da una frazione di popolo solo più in teoria sovrano”[3]. Prigionieri di scelte altrui[4].

Francamente non so se Norberto Bobbio, a distanza di trent’anni, osservando la competizione elettorale in corso, scriverebbe che il giorno delle elezioni è “l’evento costitutivo della forma di governo rappresentativo”[5]. Infatti, occorre osservare che una affermazione come questa si spiega e si inscrive in una concezione etica del voto che fa a pugni con quelle teorie che intendono il voto né più né meno come una merce, per cui la compravendita dei voti (e analogamente degli organi) non è altro che una normale manifestazione della logica del mercato. La concezione etica del voto è accolta dalla nostra Costituzione che disciplina il diritto di voto ispirandosi ai principi della più ampia democrazia. L’art. 48, infatti, stabilisce che sono elettori tutti i cittadini, donne e uomini, che hanno compiuto la maggiore età. Il voto, che può essere limitato solo per “incapacità civile o penale”, è definito “personale ed eguale, libero e segreto”, mentre il suo “esercizio” è considerato “un dovere civico”.

Richiamo l’attenzione in modo particolare su due qualificazioni del voto democratico: eguale e libero. Evidente traspare il richiamo ai valori dell’eguaglianza e della libertà: perché il voto sia effettivamente democratico occorre che il suffragio sia universale, cioè che tutti i cittadini abbiano un eguale diritto al voto, e che il voto sia libero, cioè che i votanti abbiano libertà di scelta. Come ha scritto meravigliosamente Piero Gobetti, che pure nutriva una certa diffidenza verso i partiti, privilegiando l’azione dei piccoli gruppi e delle élite intellettuali, “il voto anche per chi non sia un fanatico dell’illuminismo è veramente l’atto di nascita della persona politica”[6].

Credo sia importante ricordare, e non scordarlo mai, che le donne in questo paese hanno ottenuto il diritto di voto solo dopo la Resistenza e la liberazione dal fascismo. Riferendosi alla trasformazione dei rapporti tra i sessi cui abbiamo assistito anche in Italia fin dai primi passi della democrazia alla prova e prepotentemente in tutto il mondo occidentale dalla fine degli anni Sessanta in avanti, Bobbio ha parlato di una rivoluzione silenziosa, “forse la maggiore rivoluzione dei nostri tempi”[7].

La prima convenzione sui diritti delle donne, che richiede il diritto di voto, si è riunita nello stato di New York a Seneca Falls nel 1848, per iniziativa di Elizabeth Cady Stanton e Lucretia Mott. Vi si sostiene che l’uomo ha oppresso la donna, privandola del diritto di voto, che è il “primo diritto di ogni cittadino”, e, di conseguenza, “lasciandola priva di rappresentanza nelle assemblee legislative”[8].

Il diritto di voto alle donne in Italia è stato introdotto con un provvedimento governativo del governo Bonomi il 31 gennaio 1945. Per la prima volta le donne hanno votato alle elezioni amministrative della primavera 1946 e poi alle elezioni per l’Assemblea costituente e al referendum istituzionale per la scelta tra la monarchia e la repubblica il 2 giugno 1946. Nella società patriarcale italiana di quegli anni il diritto di voto alle donne è stato “un atto sovversivo”[9].

Non si insisterà mai abbastanza nel ripetere che la “rivoluzione” riguarda un angolo, un angolino di mondo, il “nostro” mondo. Per esempio, in Kuwait, “dopo un lungo cammino in un parlamento di soli uomini, il congresso ha approvato una legge che concede finalmente il diritto di voto alle donne, nonché quello di assumere incarichi negli uffici pubblici del Paese”. Le donne di un paese per il quale nel 1991 è stata combattuta una “guerra internazionale per lo stato di diritto”, hanno votato per la prima volta nelle elezioni politiche del 2005[10].

La seconda ragione è la progressiva affermazione del partito dell’astensione come il primo partito in Italia.  Al punto che si è parlato di desertificazione della democrazia[11]. Sbagliando i partiti si rivolgono nella loro campagna elettorale al proprio elettorato di riferimento o a quello più prossimo alle loro politiche, rinunciando al dialogo con gli astenuti.  Non si comprende o non si vuole comprendere che l’astensione non è necessariamente sinonimo di ignavia e neppure di disinteresse. L’astensione è un fatto fisiologico delle democrazie odierne e, in date circostanze, quando, come da tempo accade in Italia, la politica non incide sulle nostre vite, non risolve i problemi, non cambia le cose, diventa a sua volta una scelta politica. In questi casi si può vedere nell’astensione un voto d’opinione.

L’astensione può essere di due tipi: strutturale, quella di lunga durata, praticata sistematicamente, per anni, da anni, elezione dopo elezione, senza dubbi né rimorsi, oppure contingente, quella praticata episodicamente in base alle circostanze politiche del momento. Il secondo tipo è quello dei tanti giovani al primo voto alle elezioni del 25 settembre  che non si riconoscono in nessuna offerta politica (che brutto modo di definire e presentare la politica alla stregua di uno spettacolo televisivo di prima serata o come una delle innumerevoli marche di un prodotto esposto ai grandi magazzini)[12].

L’astensionismo, sia contingente sia strutturale, può essere passivo, ci si astiene per disinteresse verso la vita politica, o attivo, si esprime il proprio impegno attraverso forme di partecipazione diverse se non opposte o addirittura ostili rispetto a quelle tradizionali della politica. L’astensione attiva esprime distacco dalla vita politica ma non da quella pubblica. Politico e pubblico si somigliano ma non sono la stessa cosa.

Vi sono due modi di impegnarsi: politicamente, iscrivendosi, cioè avvicinandosi a un partito,  e sostenendolo con il diritto/dovere della partecipazione al voto,  oppure civicamente, cioè portando, aggiungendo un contributo più largo in una sfera allargata e in modalità inedite, trovando le ragioni della partecipazione più nell’etica che nella politica, sulla base di valori di libertà, in difesa dei diritti umani, della salvaguardia della pace e della giustizia climatica. L’ambiente è il grande tema della cosiddetta generazione zeta in tutto il mondo.

Impegno politico e impegno civico non sono in contrasto tra di loro, anzi sarebbe auspicabile una loro integrazione che sovente si ritrova nell’azione di gruppi, associazioni, movimenti nella società che si pongono il problema di una rappresentanza in Parlamento.

Come diceva Aldo Capitini, “non c’è luogo dove i nostri principi della nonviolenza e del potere di tutti valgano e dove non valgano: essi valgono dappertutto e senza interruzione. Operare per essi è dare il meglio integrando e correggendo continuamente i governi degli Stati, tutti più o meno incapaci attualmente di dare il meglio”[13].

 

Note:

[1] Cito da Massimo Lancisi, No alla guerra!, Piemme, Casale Monferrato, 2005, pp. 87 e 92, che  ripropone il testo L’obbedienza non è più una virtù, con un saggio che lo inquadra nella storia del movimento per la pace e la nonviolenza e una ricca rassegna di testimonianze (tra gli altri Pietro Pinna, Alex Zanotelli, Tiziano Terzani).

[2] N. Bobbio, Elementi di politica, a cura di P. Polito, Einaudi, Torino 2010, p. 149.

[3] G. Migone, Quel Rosatellum che fa comodo a tutti i partiti, “il manifesto”, mercoledì 27 luglio 2022, p. 15.

[4] G, Zagrebelsky, L’immaturità della politica, “la Repubblica”, giovedì 15 settembre 2022, p. 26. In prima pagina l’articolo reca il titolo: L’immaturità della democrazia.

[5] N. Bobbio, Elementi di politica, cit., p. 101.

[6] P. Gobetti, Liberalismo e democrazia, in Id., Scritti politici, a cura di P. Spriano, Einaudi, Torino, 1960, p. 440.

[7] N. Bobbio, Il futuro della democrazia, in Id., Elementi di politica, cit., p. 127.

[8] Cito da Anna Rossi Doria (a cura di), La libertà delle donne. Voci dalla tradizione politica suffragista, Rosemberg & Sellier, Torino, 1990, p. 92. Della stessa autrice: Diventare cittadine. Il diritto di voto alle donne, Giunti, Firenze, 1996.

[9] Patrizia Gabrielli, La pace e la mimosa. L’Unione donne italiane (1944-1955), Donzelli, Roma, 2005. L’espressione è di Nadia Spano.

[10] Da un box non firmato, intitolato Le suffragette vincono in Kuwait, pubblicato in “D. La repubblica delle donne”, n. 48, 25 giugno 2005, p. 16,

[11] Enzo Risso, Perché in Italia cresce la disillusione verso le elezioni, “Domani”,  domenica 11 settembre 2022, p. 6.

[12] Federico Fornaro, Gli elettori intermittenti hanno reso il voto sempre più incerto, “Domani”,  domenica 11 settembre 2022, p. 6.

[13] A. Capitini, Dare il meglio, in «Azione nonviolenta», luglio-agosto 1966.

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