La guerra in Ucraina e le scivolose vie dell’etica della responsabilità

Francesco Pallante


Nell’articolo di Norberto Bobbio che apre la raccolta di interventi sulla guerra e sulla pace promossa dal Centro studi Piero Gobetti come contributo di riflessione sulla guerra in Ucraina, centrale è la distinzione tra l’etica delle buone intenzioni e l’etica della responsabilità. Chi vuole realmente la pace – argomenta Bobbio – non può limitarsi a idealmente invocarla, e poi accada quel che accade; chi vuole realmente la pace deve, al contrario, concretamente agire per costruirla, se necessario anche imponendola tramite il ricorso a una «violenza concentrata e controllata».

Il modello di riferimento è chiaramente quello hobbesiano-weberiano: solo la rinuncia da parte di tutti i membri di una collettività al diritto naturale di far uso della violenza («la violenza diffusa, e come tale incontrollabile»), a favore della creazione, in capo a un soggetto terzo, di un diritto civile al monopolio della violenza legittima («la violenza concentrata e controllata», appunto) può davvero rendere praticabile la pace. È un discorso che vale anzitutto per i singoli individui, ma che, sulla scia dell’insegnamento kantiano, può altresì valere per gli Stati, com’è dimostrato proprio dall’originario tentativo di dotare le Nazioni Unite di una forza armata congiunta, formata da contingenti nazionali posti sotto il comando del Consiglio di sicurezza e del Comitato di Stato Maggiore dell’Onu, attraverso cui poter agire, da posizione terza, in vista del mantenimento o del ristabilimento della pace (articoli 43-47 della Carta dell’Onu).

Sappiamo bene, purtroppo, che tali previsioni sono rimaste lettera morta: per via della contrapposizione internazionale che subito dopo la seconda guerra mondiale vide Nato e Patto di Varsavia schierarsi su fronti contrapposti; e per via del diritto di veto riconosciuto agli Stati vincitori del conflitto mondiale in sede di Consiglio di sicurezza. Di fatto, quest’organo – la sede decisionale fondamentale dell’Onu – mai ha potuto realmente operare al di sopra di tutte le parti, come succede anche oggi, quando ogni reazione all’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina è preclusa dal veto con cui Mosca ne blocca le decisioni.

È chiaro, peraltro, che la questione non ha rilievo esclusivamente giuridico, come sembra illudersi chi, proprio in questo frangente, invoca la revoca del veto alla Russia. Al di là del fatto che, storicamente, tutte le potenze titolari di questo privilegio – oltre alla Russia: gli Stati Uniti, la Cina, il Regno Unito e la Francia – ne hanno fatto uso e abuso, il punto è che dietro alla forma del veto si cela la forza dell’arma nucleare. Revochiamo pure il veto alla Russia, ammesso che sia giuridicamente possibile farlo; e poi? Le scateniamo contro un’armata internazionale sotto i vessilli dell’Onu a protezione dell’Ucraina? Sappiamo tutti benissimo quali sarebbero le conseguenze: nel giro di pochi minuti, migliaia di testate nucleari porrebbero fine alla vita umana sulla terra. O vogliamo scommettere, come vorrebbero i fautori della no fly zone, che al momento decisivo i russi si tireranno indietro? D’accordo, ma allora evitiamo almeno di parlare di etica della responsabilità. O riteniamo che affidare la sopravvivenza della specie umana a una scommessa potenzialmente senza ritorno sia un comportamento responsabile?

Più in generale, differenziandosi dall’etica delle buone intenzioni, che reagisce a qualsiasi guerra sempre nello stesso modo, tramite l’invocazione della pace, l’etica della responsabilità, specie nella versione che Bobbio definisce «più realistica», ha il problema di giustificare le differenti reazioni riservate alle diverse situazioni. Perché, per esempio, la violazione della pace è un crimine cui reagire in Ucraina e non in Yemen, in Siria, in Kurdistan o in Palestina? E perché non lo è stato in Iraq, in Jugoslavia, in Afghanistan e in Libia, dove, anzi, proprio chi oggi, in nome dell’etica della responsabilità, invia armi all’Ucraina a difesa della pace quella stessa pace l’ha violentata muovendo sanguinosissime guerre di aggressione?

Sono domande ineludibili se si vuole credibilmente mantenere il discorso sul piano etico, perché, altrimenti, l’accusa di utilizzare strumentalmente l’etica della responsabilità come copertura ideologica dei propri concretissimi interessi di potenza è così facile da risultare persino scontata. Sarebbe in quest’ottica interessante capire, per esempio, quale sia la prospettiva etica che, nel giro di poche settimane, ha indotto il Parlamento italiano ad approvare l’invio di armi all’Ucraina aggredita dalla Russia e a istituire la giornata di celebrazione degli alpini proprio nella ricorrenza della battaglia di Nikolajewka, avvenimento emblematico della guerra di aggressione scatenata dall’Italia fascista contro la Russia.

Il punto è comprendere quale sia, oggi, la posizione più idonea a soddisfare l’etica della responsabilità. Qual è l’azione capace di non essere soltanto buona in sé, ma di avere anche conseguenze buone? È spingere in tutti i modi possibili le parti al tavolo negoziale o è alimentare la guerra confidando che duri abbastanza a lungo da sfiancare i russi e portarli alla disfatta? Qual è lo scopo che ci prefiggiamo: difendere l’Ucraina o sconfiggere la Russia? Le due cose non vanno necessariamente insieme, perché anche questa guerra, come tutte le guerre, è suscettibile di finire in tre modi: con la vittoria di una parte, con la vittoria dell’altra parte, con un compromesso tra i contendenti. È chiaro a cosa puntano gli Stati Uniti, assieme al Regno Unito, alla Polonia e ai Paesi baltici: alla disfatta dei russi per interposta Ucraina e al cambio di regime a Mosca. Ed è chiaro a cosa puntano la Turchia e Israele, con il sostegno indiretto della Cina, dell’India e di gran parte dei Paesi non occidentali: a un accordo negoziale che metta le loro economie al riparo dalla crisi che la guerra già porta con sé. E l’Europa? A cosa punta l’Europa? Tutti a celebrare l’unità con cui i membri dell’Unione sono scattati sull’attenti al richiamo della Nato per l’aumento della spesa militare, ma nessuno che abbia un’idea su cosa sia realmente bene fare: armiamo l’Ucraina, finanziamo i russi, ci commuoviamo ai discorsi di Zelensky, parliamo al telefono con Putin. Tutto e il contrario di tutto. Gli unici che non sanno come reagire a una guerra europea sono gli europei. Davvero non si capisce il motivo di tanta giuliva soddisfazione.

Eppure, non dovrebbe essere difficile convenire che anche per l’etica della responsabilità approfittare della guerra per perseguire i propri obiettivi è un comportamento irriducibile all’imperativo kantiano di non utilizzare gli esseri umani come mezzi. Vanno quindi, per prima cosa, respinti tutti i disegni volti a ulteriormente inasprire il conflitto, rigettando come lesivi non solo dell’etica delle buone intenzioni, ma anche dell’etica della responsabilità la creazione di ostacoli al negoziato, la fornitura di nuove armi offensive all’Ucraina, l’istituzione di no fly zone, lo schieramento, in qualsiasi forma, di truppe Nato sul terreno, la denigrazione del rischio nucleare. Dopodiché, alla luce di tutto ciò, dovremmo seriamente domandarci se abbiamo fatto tutti gli sforzi possibili per scongiurare la guerra prima che iniziasse e se stiamo facendo tutto il possibile per fermarla adesso che è iniziata. E forse scopriremmo che, mai come in questa occasione, invocare la pace non è espressione dell’etica delle buone intenzioni, ma dell’etica della responsabilità.

Centro studi Piero Gobetti

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