Norberto Bobbio, La religione della libertà
(In Id., Franco Antonicelli. Ricordi e testimonianze, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 27-35).

Dire che Franco è presente in questa stanza in mezzo a volti noti di tante persone che lo hanno amato, non è una pietosa finzione. Chi di noi in questo momento non lo rivede, seduto a questo stesso tavolo, coi suoi gesti precisi, misurati, quasi rituali, la mano e il dito alzati nell’atto solenne di pronunciare la condanna di un sopruso, le mani che si cercano e si contorcono l’una verso l’altra nell’atto di spiegare un concetto, o il palmo di mano alzato, col braccio teso verso l’uditorio nell’atto di chiedere attenzione per qualche cosa di straordinario che deve essere detto? Chi di noi, ricordandolo, non risente la sua voce, da cui egli stesso si lasciava incantare, riascoltandosi, vibratissima nei toni alti ma non mai aspra, efficace nel suscitare forti affetti senza mai cadere nel patetico, suasiva senza essere leziosa, svariatissima e quindi capace di adattarsi ai più diversi uditorî, fosse quello di una lezione o di una dizione di versi, o quello di una conversazione amichevole, il gruppo ristretto di un comitato che doveva deliberare o la folla di un comizio in piazza?

Chi, guardando e riguardando le fotografie stampate nell’invito che ciascuno di noi ha tra le mani, non lo rivede in alcuno dei suoi atteggiamenti che gli sono stati familiari, qua bonariamente ironico, soprattutto verso se stesso, là pensoso, assorto, in cerca di una risposta a un problema che la lettura gli suscita nella mente, e là ancora, solo, al limitare di un bosco, con l’aria un po’ stanca, che peraltro non gl’impedisce di accennare a un vago sorriso? No, la presenza di Franco fra noi oggi non è una pietosa finzione né un artificio retorico. Parlando di lui sento che parlo anche con lui. Per questo non intendo violare il suo divieto, e passo oltre.

Nel parlare o nel lasciar parlare di sé Franco era scontroso. Non appena si accennava un commento a un suo scritto o discorso, o peggio quando il commento era anche un’espressione di lode, ti guardava un po’ incredulo, quasi si scusasse di non aver fatto più e meglio, di aver buttato giù in fretta, all’ultimo momento, di doverci ancora ripensare, e troncava il discorso. Scontroso, perché incontentabile, incontentabile perché si confrontava continuamente coi maestri. Se non si parte da questo dato di fatto, che del resto era noto a tutti gli amici, della sua perenne insoddisfazione, che credo fosse per lui una ragione di vera e propria sofferenza, e forse anche di autocritica spietata, non si riesce a spiegare la quantità di scritti di lunga lena iniziati e mai condotti a compimento, e, chi sa, distrutti. In confronto alle mille e mille pagine che egli scrisse con una meravigliosa facilità, versi, appunti, note di diario, saggi, discorsi (che nonostante la sua facondia, scriveva e spesso leggeva), gli scritti editi sono pochissimi: disseminati alcuni in giornali, da «l’Opinione» che fu la sua creazione, e su cui scrisse quasi giornalmente per circa un anno, a «La Stampa», in cui scrisse non solo recensioni di libri ma anche racconti o moralità, com’egli le chiamava; altri in riviste come «Il Ponte», «L’Astrolabio», per molti anni con settimanale continuità il «Radiocorriere», e infine negli ultimi anni, dove ebbe finalmente la sua tribuna politica, cui aveva sempre aspirato, «Nuova società»; oppure sperduti in miscellanee introvabili (cito fra tutte quella per le nozze Castelnuovo-Frigessi, dove pubblicò alcune poesie scritte anni prima nella prigione di Castelfranco, e una di queste è la cartolina a Pavese, che incomincia «D’improvviso le Langhe. E t’ho pensato»; o nelle edizioni (lucus a non lucendo) dell’ERI, dove stampò fra l’altro la raccolta di scritti brevi Il soldato di Lambessa, che nonostante il titolo attraente solo pochi amici hanno letto (oltre La vita di D’annunzio e il Piccolo libro di lettura), o in volumi celebrativi fuori commercio. Amava le piccole case editrici appartate, che non cercano i loro lettori perché sono i lettori che cercano loro, come Scheiwiller, dove stampò il suo Gozzano e il suo Gobetti. Soprattutto gli piaceva la trasmissione privata, non pubblica, dei suoi scritti, specie delle poesie, che scrisse innumerevoli, giocose, conviviali, satiriche durante il fascismo ma anche negli ultimi anni, elegiache, d’ispirazione immediata — un improvviso pensiero, il ricordo di un incontro, un paesaggio intravisto e diventato immagine trasfigurata nella memoria —; e poi donava agli amici, senza curarsi di tenerne una copia, sì che molte, temo, saranno andate perdute, ma qualcuno dovrà pur un giorni tentarne la difficile raccolta. Scrisse un’infinità di prefazioni, specie a libri sulla Resistenza; ancora una volta opere che di solito non vengono citate o vengono citate solo indirettamente. (Ma vale la pena ricordare almeno quella scritta per la edizione dei drammi di Ibsen e quella alla raccolta di conferenze e testimonianze sugli ultimi trent’anni di storia italiana, che presentava spiegava e giustificava la prima serie delle grandi conferenze storiche e politiche, da lui stesso volute, promosse e organizzate, come era suo costume, sin nei più minuti particolari). Pochissime le cose edite rispetto a quelle inedite, e probabilmente in gran parte perdute, ma molto più numerose di quelle che anche gli amici, coloro che gli erano più vicini, e lui stesso, noncurante dissipatore, sappiano o ricordino. Chi avrà la pazienza di radunare anche soltanto l’edito, poesie, scritti letterari, discorsi e saggi politici, recensioni di libri, si ritroverà fra le mani un materiale copioso, che un giorno varrà la pena, anche prescindendo dagli inediti, di mettere insieme, ordinare, e trascegliere accuratamente per presentarlo finalmente in forma unitaria ad un vero pubblico. (E non sarebbe inopportuno cominciare dalla compilazione di una bibliografia, che richiederà tempo e cura meticolosa; della quale mi piacerebbe si facesse promotore il nostro Centro). Scrittore infaticabile di messaggi, di lettere, e anche soltanto di cartoline con una battuta scherzosa, con quella sua scrittura lievemente inclinata, nitidissima, sempre uguale negli anni, un po’ geometrica, che non sai se fosse segno o disegno, vi si esprimeva con il suo humour, con il suo gusto per la facezia, o il gioco verbale, l’invenzione fantastica, la descrizione di una paesaggio, il rapido commento al fatto del giorno, l’apertura di uno spiraglio su uno stato d’animo, un’appassionata invocazione d’amicizia: basti qui ricordare il gruzzolo davvero prezioso di lettere ad Anita Rho pubblicate nel volume di Lettere di antifascisti curato da Giancarlo Pajetta, che fanno desiderare che altre vengano a poco a poco raccolte e pubblicate. (Una prima lunga lettera sulla sua attività editoriale, vero e proprio piccolo brano di autobiografia, è stata pubblicata poco dopo la sua morte su «Rinascita»). Aveva bisogno di esprimersi, e sentiva e faceva sentire agli amici la gioia di comunicare agli altri sentimenti, emozioni, idee, pensieri, per mettere alla prova un progetto da cui doveva in qualche modo liberarsi, o per dar vita alla convinzione che qualche cosa dovesse essere fatto, o per far partecipare altri di un giudizio che riteneva doveroso su un evento o su un personaggio. Non che fosse troppo facilmente disponibile all’espansione subitanea. Era anzi riservato, e tanto festoso con gli amici, con le persone di cui si fidava, della cui pulizia morale era convinto, e in ciò aveva un fiuto sicuro, tanto era diffidente, si da apparire selvatico, con estranei appena conosciuti e ancora mal soppesati.

Nonostante la sua socievolezza, Franco era un solitario, che viveva molto dentro se stesso, e non lasciava apparire al di fuori che una parte di sé. Chi per un attimo sia andato a trovarlo in casa, in una delle sue case (ne ebbe parecchie negli ultimi anni), si rendeva conto immediatamente che ogni cosa, anche il proverbiale disordine con tutti quei libri e giornali accatastati, diventati i veri signori del luogo, aveva ricevuto la sua impronta, ed era lì proprio perché doveva essere lì, e guai a chi si fosse arrischiato a spostarla: era appunto la casa  di uno che per essere veramente se stesso aveva bisogno di solitudine. E vi passava infatti ore e ore, talora giornate intere, da cui usciva stanco, affranto, e allora telefonava ad un amico quasi per far sapere che era ancora vivo, a leggere, a stordirsi con la lettura, che era insieme il suo ozio e il suo negozio, il suo tormento e il suo divertimento. Talora si isolava anche in mezzo agli altri, e restava muto per ore, non tanto sospettoso quanto indifferente: erano i momenti in cui portava ripetutamente l’indice della mano destra alle labbra, che era una reminiscenza infantile, come di chi ha altro da pensare, e parla tra sé e sé.

Proprio perché era un uomo che viveva molto in se stesso e di se stesso, nessuno si illuda di averlo conosciuto sino in fondo. Anche perché era un personaggio complesso dalle molte facce, spesso contrastanti, almeno apparentemente volte verso direzioni di solito divergenti. Ho già detto dei due modi opposti del suo stile poetico, il giocoso e l’elegiaco, il satirico-civile e il lirico-intimistico. Ma si potrebbe continuare a voler rilevare i contrasti. Da un lato il poeta, lo scrittore, – uno scrittore di frammenti, non mai di cose di grande respiro, che ubbidisce all’ispirazione del momento, fissa un’immagine sulla carta prima che svanisca, si diverte anche ad improvvisare (vi sono alcune poesie senatorie, scritte durante le faticose e affaticanti sedute di Palazzo Madama). Dall’altro, il letterato, il critico, lo studioso di alcuni autori prediletti, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Gozzano, ma non bisognerebbe dimenticare Villon, cui fu avviato se ben ricordo da uno dei nostri maestri dell’università torinese, Ferdinando Neri, il critico che ha imparato la lezione crociana della critica estetica ma non ha dimenticato quella della scuola filologica attenta al testo, e alle cure anche minuziose sino ad apparire pedantesche che un testo, per essere letto a dovere, richiede. E ne ha dato prova, ad esempio, nell’elegante, quasi preziosistico volumetto gozzaniano, La moneta seminata, alla ricerca di scritti poco noti e di varianti. Da un lato, lo scrittore raffinato, che ama la pagina scritta bene, di gusto sicuro nella scelta dell’espressione più incisiva, della parola più giusta e insieme meno trita; dall’altro l’oratore politico, chiamato a parlare nelle grandi occasioni nazionali, che ha tenuto discorsi memorabili, come quello al Teatro Alfieri in occasione della morte di Togliatti, ed è passato di teatro in teatro, di piazza in piazza per tutto il paese a ricordare la resistenza passata e a incitare alla resistenza presente, o a pronunciare discorsi elettorali (e ricordo quello tenuto in occasione delle ultime elezioni, di fronte a un teatro gremito), anche nei più piccoli paesi del Piemonte, che pur senza alcuna concessione alla retorica e tanto meno alla demagogia, hanno l’effetto di trascinare l’uditore (Franco fu davvero, lui letterato sino al midollo, un grande oratore popolare). Applaudito, festeggiato dovunque si presentasse, specie se il pubblico era di popolani, di operai, della gente che va in piazza, e non è mai entrata in un’aula universitaria o in una sala conferenze. Sembra un uomo delicato, e invece è fortissimo. Sembra abituato alla vita comoda e invece quando è in prigione e ci va tre volte nella sua vita, (ed essere arrestati a Roma nel ’44 non era una faccenda da prendere alla leggera), si comporta da uomo temprato, che sopporta serenamente e talora anche allegramente la sua sorte. Sembra un uomo destinato alla quieta vita dello studioso, ma membro attivo e influente del Comitato di liberazione piemontese, vive un anno fra i più gravi e sempre incombenti pericoli, senza darsene pensiero come se fosse la cosa più naturale del mondo. Sembra un uomo gracile e invece è resistentissimo, nonostante una certa SUA civetteria nel lamentarsi sempre che è stanco, e, per quanto incalzato dalle cose da fare, va, viene, viaggia su e giù, prepara il discorso e l’articolo, partecipa alla seduta di qualche comitato e riceve non so quanta gente, e poi all’insaputa di tutti tira fuori dalla manica, come un prestigiatore, un gustosissimo libro di poesie per ragazzi.

Non ho mai creduto alla ricerca dell’unità a tutti i costi: ogni personalità è un tutto composto di parti in conflitto, dove si accavallano e si urtano e spesso trovano fra loro accomodamenti soltanto effimeri, influenze diversissime, ereditarie, familiari, poi scolastiche, poi ancora quelle che provengono dalla grande società nazionale, e quelle ancora che nascono oggettivamente dagli avvenimenti di cui si è non inerti spettatori. L’unità non è mai un dato, è se mai una conquista, che si raggiunge e si perde ogni giorno, è il risultato di uno sforzo, e se non è il risultato di uno sforzo è l’unità semplice dei caratteri scialbi, che non hanno storia. Ma chi volesse trovare il carattere essenziale di Franco al di là di questo gioco dei contrasti dovrebbe andarlo a cercare in un certo rigore morale, che diventava scrupolo filologico nel lavoro di critico, impegno severo e senza tentennamenti, quando l’azione gli pareva necessaria e indifferibile, nell’azione politica. Franco era un uomo che aveva i suoi principî e vi mantenne fede senza debolezze, e apparentemente senza sforzo. Come sia venuto all’antifascismo non saprei dire: quando cominciammo a frequentarci, intorno al ’30, egli era già stato arretato la prima volta per l’episodio della lettera a Croce, più volte raccontato (ma il primo incontro era stato al liceo D’Azeglio qualche anno prima quando egli era arrivato giovane affascinante supplente di Umberto Cosmo cacciato via dal regime). Credo che anch’egli fosse passato dall’antifascismo etico all’antifascismo politico quasi insensibilmente per la forza stessa delle cose, come accadde su per giù a tutti coloro che non appartenevano a gruppi politici organizzati. Come dall’antifascismo militante sia passato alla partecipazione attiva, alla Resistenza, e come l’abbia conclusa, designato presidente del Comitato di liberazione piemontese, sono cose note. Ma Franco, uomo di principî, non era un politico, o meglio, per avvalermi di una nota distinzione, egli visse specie negli ultimi anni non di politica ma per la politica. Non appartenne mai anche quando diventò membro del parlamento italiano, e membro non passivo, anzi attivissimo (come dimostrano i suoi discorsi parlamentari), alla categoria dei politici di professione. Concepì la politica come attività necessaria all’uomo intero, e magari in certe situazioni prevalente, ma non mai esclusiva. Come strumento non di potere ma di libertà, e s’intende per coloro che non sono ancora liberi, la cui libertà deve essere difesa, allargata, rafforzata contro i potenti di turno. Come era passato naturalmente dall’antifascismo morale a quello politico, così passò altrettanto naturalmente dall’appartenenza al partito liberale, da cui del resto si staccò ben presto, al piccolo gruppo di Concentrazione democratica con Parri e La Malfa alle elezioni della Costituente, quindi al raggruppamento elettorale dell’Alleanza democratica nella battaglia contro la legge-truffa nel 1953. Chi gli è stato vicino in quei quindici anni che trascorrono dal 1953 al 1968 quando viene eletto senatore nella lista della sinistra indipendente, ricorda che sono stati anni di maturazione e di preparazione, di attesa non di distacco, e tanto meno di disimpegno (basti ricordare la vitalità dell’Unione culturale da lui fondata e diretta intorno al ’50, le grandi conferenze del teatro Alfieri, di cui egli fu l’animatore e l’organizzatore, la fondazione del Circolo della Resistenza nel 1959, e la discesa in campo aperto a Genova nel luglio del ’60 contro il governo Tambroni).

Anni di maturazione, ho detto, non come alcuni hanno creduto o insinuato, di conversione. Franco rimase inflessibilmente fedele al nucleo liberale del suo pensiero, a quella che allora si chiamava crocianamente «religione della libertà» (chi mai oggi oserebbe usare questa espressione?). Ma la libertà non sta ferma e chi crede stia ferma l’ha già abbandonata. La lotta per la libertà è sempre una lotta per l’affrancamento da qualche forma di oppressione. Ma le forme di oppressione di oggi non sono quelle di ieri. E poi per combattere seriamente una battaglia bisogna scegliere una parte. Franco scelse coscientemente, liberamente, duramente, di mettersi dalla parte del movimento operaio, e accettò, se pure in un rapporto di rispettosa e rispettata indipendenza, il sostegno del partito comunista, in cui contava molti amici, sin dagli anni della Resistenza, e di cui ammirava lo spirito di disciplina, la severità del costume, la dedizione alla causa. E che altro fu la gobettiana «rivoluzione liberale»? Anche Gobetti era stato discepolo non pedissequo ma devoto dei grandi maestri liberali della sua generazione, da Croce («maestro agli italiani anche nella serenità del combattere») a Einaudi («l’uomo che appena conosciuto ispira fiducia»), a Gaetano Mosca, il «conservatore galantuomo». Ma fu nello stesso tempo, senza lacerazioni, ma per intimo accrescimento, amico e collaboratore di Gramsci. Che voleva dire «rivoluzione liberale» se non che la sola idea rivoluzionaria era l’idea di libertà e di questa idea sarebbe stata banditrice non la classe borghese che si era consegnata al fascismo, ma la classe operaia? Franco non appartenne alla schiera degli amici di Gobetti: lo conobbe, come lui stesso racconta nella prefazione a L’editore ideale, di sfuggita. Ma fu sempre affascinato dalla figura del giovane suscitatore d’idee e di energie. Quando intraprese a far l’editore con Frassinelli nel 1932, quale fu il modello da imitare se non Gobetti? Credo non vi siano stati nella politica attiva di questi anni spiriti gobettiani più di Franco. Se c’è un pensiero gobettiano, Franco ne è stato, senza neppure proporselo in modo preciso, il migliore interprete. Se c’è un patrimonio di idee di solito così male capite che possa dirsi gobettiano, Franco ne è stato praticamente e non soltanto idealmente l’erede più genuino. Solo pensando a quello che è stato Franco nella lotta politica di questi anni, un’espressione un po’ ostica, che ad alcuni pare contraddittoria, come «rivoluzione liberale», acquista un senso concreto. Per questo ci è parso che la sede ideale per ricordarlo fosse questo Centro che al nome di Piero Gobetti è intitolato e a cui egli fu affezionato e diede tanta parte della sua opera generosa destinata a durare nel tempo. Il quale rivolge per mio tramite a Renata e a Patrizia le più affettuose e le più dolenti espressioni di rimpianto per l’amico perduto.

Mi perdonerà per aver detto più cose di quelle che egli avrebbe gradito? Mi pare di ascoltarlo mentre mi ammonisce:

Non volgerti indietro Orfeo. Il tuo canto addolcisce le fiere non ridesta il passato.

Centro studi Piero Gobetti

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