Vivere (e “redimersi”) nella pandemia

di Rosalia Peluso


Scrivo, domenica di Pasqua, di redenzione. È il 4 aprile, inoltre, anniversario dell’assassinio di Martin Luther King che ha gridato e ricordato all’umanità di non smettere di avere sogni e coltivarli.

Il confronto, tragico e forzato, con un virus che minaccia la sopravvivenza della specie umana, oltre ad essere una costante storica, ci obbliga a un nostro riposizionamento di fronte a quell’universo cui certamente apparteniamo, ma che non ci appartiene: di esso non possiamo disporre illimitatamente. La grandiosa e arrogante filosofia della storia, che era nata dalla pretesa di sondare l’abisso del mistero e assegnare a ogni evento la sua ragione, il suo posto nel grande mosaico dell’essere, si ferma qui: registra lo scacco dell’umanità che non è nata per svolgere funzioni di luogotenenza della creazione, perché è piuttosto un incidente di percorso reso possibile da catastrofi ed estinzioni di altre specie.

Rileggere il libro della nostra storia, a partire da quella evolutiva, ci aiuta senz’altro a riposizionare l’umanità nel cosmo. Questo il senso laico e progettuale di una “redenzione” che deve diventare il nostro quotidiano impegno di vita. “Redimerci” da cosa? Dai pregiudizi. Mi soffermo in particolare sul pregiudizio antistorico che entra nella carne viva del mio lavoro e perciò mi sta più a cuore. 

Di eccesso di storia ci si può ammalare, scriveva Nietzsche. Ma senza storia, cosa ci potrebbe capitare? La domanda allarmata nasce dagli eccessi di zelo di questa letale “variante” del virus misostorico che procede per abbattimenti e decapitazioni di statue, censure e ripuliture politically correct di prodotti letterari e in vario modo artistici e che addirittura viene insignita del titolo di “cultura”: cancel culture, cultura della cancellazione. Queste “pulizie di primavera” linguistiche e concettuali nei magazzini della storia mi inquietano non poco: come misureremo i nostri progressi civili se smarriamo il parametro iniziale?

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