Quello che i soldi non possono comprare

di Francesco Pallante


L’intuizione di Pietro Polito per cui la pandemia da Covid-19 è «l’autobiografia della specie umana» – allo stesso modo in cui, secondo l’insegnamento di Piero Gobetti, il fascismo lo è della nazione italiana – apre uno squarcio di verità nelle letture di comodo, conformiste, rassicuranti che dominano l’interpretazione degli sconvolgimenti dell’ultimo anno. Rigettando l’ingenuo ottimismo dell’«andrà tutto bene», la via d’uscita da questa e dalle future pandemie, se ci sarà, non potrà che essere politicamente conflittuale. Personalmente, vorrei, allora, indicare, come decisivo oggetto di conflitto, l’idea che l’intera nostra organizzazione sociale debba rispondere esclusivamente a criteri di valutazione economici. Che l’unica cosa che conti, cioè, nel momento in cui, in qualsiasi ambito, si mettono a confronto opzioni politiche differenti, sia individuare quella che costa meno al pubblico e procura maggiori profitti ai privati. È questo, mi pare, il criterio fondamentale che ci ha condotto all’abbandono del territorio e alla concentrazione dei servizi in un numero circoscritto di «poli di eccellenza». In tutti i campi. E così, confusamente, alla medicina territoriale abbiamo preferito i mega-ospedali; al patrimonio architettonico e culturale diffuso i grandi poli museali; alle aree interne i conglomerati urbani; ai negozi di quartiere i centri commerciali; alle sezioni di partito le strutture leggere e verticistiche; alla cura idro-geologica le grandi opere; ai servizi di assistenza domiciliare la concentrazione degli anziani nelle Rsa; al trasporto locale l’alta velocità; all’investimento diffuso nell’istruzione le scuole d’eccellenza. E si potrebbe continuare. Il punto è che ci sono cose che i soldi non possono comprare (M. Sandel, Quello che i soldi non possono comprare, Feltrinelli 2013) e la sopravvivenza dell’umanità è senz’altro una di quelle.

 

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