Cultura è politica

di Dario Delpero


Il libro di Pietro Polito, Un’altra Italia, ci offre un affresco di passione per la Libertà attraverso 22 figure imprescindibili per il percorso culturale e umano dell’autore. In questo libro s’intrecciano e si saldano assieme la dimensione intima e relazionale di Polito, rappresentata dal nucleo piemontese, con la dimensione intellettuale e politica in senso lato, incarnata da uomini e donne del ‘900 che hanno fatto dell’Italia un paese più civile e avanzato di come la barbarie del fascismo voleva renderlo.

Quello di Polito è un libro che getta luce su autori del passato per rischiarare una certa concezione del presente che tende invece a considerare il futuro sotto il cupo ombrello dell’indifferentismo e della passività. Se però una lezione si apprende dalla lettura di Un’altra Italia è la costante propensione alla mobilitazione e all’azione presente nella vita di ciascun personaggio. Canale privilegiato del flusso partecipativo che contraddistingue la vita della maggior parte delle persone illustrate nel libro è la politica. Una politica che esplica la sua prassi attraverso un forte impianto di base, rappresentato dalla cultura, la quale, lungi dal costituirne semplicemente un ornamento, si pone come la conditio sine qua non della politica stessa.

È possibile tenere oggi assieme politica e cultura? O forse la prima ha relegato la seconda sullo sfondo delle accademie, pensando in questo modo di poterne fare a meno? Interrogativi più che mai urgenti, specie se guardiamo alla classe politica uscita fuori dopo la Prima Repubblica. Potremmo recriminare la perdita dei nostri grandi padri, dei nostri “maggiori”, oppure rimboccarci le maniche per emularne lo spirito e produrre dei “minori” decenti.

La cultura e la politica hanno viaggiato su binari paralleli e separati ma ciò non ha impedito che l’una influenzasse l’altra. Esiste nell’Italia descritta da Polito un equilibrio fra cultura e politica? La risposta è sì. La cultura occupava un posto di spicco nella politica. La sfida dell’epoca contemporanea è cercare di tenere unita una comunità attraverso una forza indipendente da ogni altra sfera: la cultura appunto. Una cultura che irradia di idee i cittadini che la coltivano e che, una volta confluita nella partecipazione e nell’iniziativa, approda ai canali della politica, che ne rappresentano il sigillo regolativo. La cultura contiene quindi intrinsecamente i germi del politico, poiché si fonda su idee, pensieri e scelte. E cos’è la politica se non lo spazio della decisione? La cultura deve essere politica e non dipendere da essa. È la cultura che produce uomini adatti allo spazio del politico e non la politica che decide se la cultura può o non può occupare un posto nella società. Il grande equivoco dei tempi moderni è pensare che esista politica senza cultura.

Questa saldatura tra cultura e politica in Un’altra Italia viene rivendicata a partire da Piero Gobetti.

L’intera opera gobettiana non può essere compresa se non alla luce del carattere militante che la caratterizza, il quale si manifesta in pensieri e teorie che fungono da riflesso di un’urgenza di intervento pratico. L’azione rivoluzionaria del movimento operaio è funzionale, infatti, al rovesciamento dell’egemonia del fronte ideologico borghese. Gobetti è il teorico della rivoluzione liberale da realizzarsi nutrendo di coscienza le masse collettive. Ma il grande limite, la sfida rimasta incompiuta di Gobetti è il non aver previsto lo scollamento venutosi a creare tra la dimensione onirica e astratta di un élite intellettuale illuminata in grado di rischiarare le masse, e la realtà fattuale che decretava l’incompatibilità delle masse con un’organizzazione volta a dirigerle illuministicamente. Si parla spesso di militanza politica dimenticandosi ciò che ne dovrebbe rappresentare la premessa irrinunciabile: una buona militanza intellettuale. Si dovrebbe quindi ammettere una reciproca interferenza di queste due sfere. Obiettivo del Gobetti è radicare la discussione intellettuale su un terreno che si spera possa produrre fertili frutti politici.

Potremmo, a distanza di quasi un secolo dalla sua morte, affermare che Gobetti ha giganteggiato nella politica italiana degli anni ’20? Se pensiamo alla politica come arena di conflitto e scontro dialettico che si consuma nelle aule del Parlamento, allora no. La ricetta politica gobettiana semplificata si fonda sulla Cultura come premessa, il conflitto come mezzo, la libertà come fine. Dunque, dal punto di vista dei valori, l’azione politica di Gobetti si sarebbe incanalata su binari ben noti. Ma il primato politico che consente di giganteggiare a Piero Gobetti non è quello concernente l’organizzazione politica dei partiti o i tatticismi parlamentari. La sua è una dimensione molto più alta. Come ci ricorda Lelio Basso, l’astrattismo di Gobetti non poté giovare all’azione politica poiché avulso dalle dinamiche reali dei giochi politici[1]. Ma quando si entrò nel periodo fascista, periodo storico in cui giocoforza ci si doveva schierare, e la politica diventava luogo di adesione o di pura lotta ad un partito-centralizzatore, Gobetti scelse la seconda opzione. Egli riuscì a giganteggiare solo e, praticamente, senza strumenti d’azione, fatto salvo l’utilizzo della ragione, proprietà inalienabile per eccellenza. Con l’avvento del fascismo, «gli obiettivi di edificazione pratica del domani passarono in secondo piano di fronte al problema della lunga lotta per abbattere il fascismo»[2]. Il gesto politico per eccellenza, in quegli anni, fu quello dell’opposizione al regime e Gobetti ne rappresentò uno dei massimi alfieri. L’intreccio fra cultura e politica in Gobetti è ancor più chiaro nella disputa con Prezzolini sulla Società degli Apoti. L’amico del giovane torinese proponeva una figura di intellettuale come “storico del presente” devoto all’imparzialità, lontano dalle contrapposizioni partigiane che stavano dividendo l’Italia. Gobetti, da parte sua, gli contrapponeva, invece, l’esigenza di uno scontro frontale netto in ambito politico, che non lasciasse spazio a fraintendimenti. Dopo la marcia su Roma, dice Gobetti, se lo storico del presente si limitasse a capire, automaticamente ne diverrebbe complice, giacché comprendere vorrebbe dire giustificare. Cultura significa prendere posizioni sul presente in cui si vive, mentre lo storico si occupa per definizione del passato. Il compito dell’intellettuale è chiarissimo per Gobetti: «Noi siamo più elaboratori di idee che condottieri di uomini, più alimentatori della lotta politica che realizzatori: è tuttavia già la nostra cultura, come tale, è azione, è un elemento della vita politica»[3].

La missione politica dell’uomo di cultura non può limitarsi ad un’arida conoscenza del presente. Al savio spetta un compito ulteriore. Per lui, conoscere il mondo ha senso solo nella misura in cui poi si agisce per cambiarlo. È il passaggio fondamentale che rivela l’essenza politica della cultura.

Benedetto Croce ebbe a scrivere: «Come la storia, dunque, è azione spirituale, così ogni problema pratico e politico è problema spirituale e morale; e in questo campo va posto e trattato, e via via, nel modo che si può, risoluto»[4]. Lo iato apparentemente incolmabile fra dimensione intellettuale e politica viene così riducendosi nel momento della considerazione concreta della storia. Croce si scagliò, riconoscendo una funzione politica della cultura, sia contro la castità verginale delle idee sia contro la loro strumentalizzazione volgare. In Croce possiamo individuare la cultura farsi politica nel celebre discorso del 1929 contro il Concordato fra Chiesa e fascismo: una professione di fede, prima ancora che politica, culturale, imperniata su valori che, proprio in virtù di un trascendimento del mero calcolo politico, si trasformano essi stessi in puro atto politico. Ritorna qui un concetto tanto semplice quanto esemplificativo di questo fatto, che ci viene da Bobbio: «Contro il politico che obbedisce alla ragion di Stato, l’uomo di cultura è il devoto interprete della coscienza morale»[5].

Concludo il mio intervento ricollegandomi al titolo del libro che qui oggi presentiamo, ovvero Un’altra Italia. Non penso che davanti a noi stia per dischiudersi un’Italia nuova, costellata da personaggi del calibro di quelli presenti nel libro di Polito. Tuttavia, ciò che diventa fondamentale per la costruzione di un’Altra Italia è ripartire dalla cultura, che è anzitutto voglia di partecipazione, di mettersi in gioco. Lo spirito della cultura dell’iniziativa, per riprendere altre parole di Gobetti, «non deve essere una cattedra per pochi, ma il ritrovo dei giovani che han voglia di fare qualcosa»[6]. Il rinnovamento di un’Italia altra passa anche attraverso forme di iniziativa non imposte dall’alto, ma originate spontaneamente dal basso. A mio modo di vedere, il dilemma, oggi, è capire se vogliamo l’Italia della necessità (quella che è così e non può essere diversa da così), che vede la democrazia liberale come coacervo di forze deterministiche che ne prolungano inerzialmente l’agonia nella quale sembra essere sprofondata, o se vogliamo invece un’Italia della possibilità, dell’iniziativa, da costruirsi giorno per giorno nello spazio della contingenza quotidiana.

 

 

 

Note:

[1] Cfr. L. Basso, Introduzione a Le riviste di Piero Gobetti, a cura di Lelio Basso e Luigi Anderlini, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. LXI-LXII.

[2] Ibidem.

[3] P. Gobetti, Per una società degli apoti. RL, a.1, n.28, 28 settembre 1922, p.104. Citato da P. Polito, Un’altra Italia, Collana I Volti di Clio, 15, Fano, Aras Edizioni, 2021, pp.83

[4] B. Croce, Storia del regno di Napoli, Considerazioni Finali, a cura di G. Galasso, Adelphi, 1992.

[5] Temi di Maturità 1996-1997 (N. Bobbio, 1954).

[6] P. Gobetti, Commenti e giustificazioni, in «Energie Nove», Serie I, n.4, 15-31 dicembre 1918.

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