Imparare a vivere, imparare a morire

di Stefania Mazzone


Pietro Polito ci offre una riflessione meditata sulla fase dell’esistenza collettiva che vede l’intera umanità alla prova, la prima della postmodernità, della paura universale della morte e della miseria. Ma è sulla paura della morte che, forse, non si è abbastanza ragionato, e sugli effetti impliciti ed espliciti di questa dal punto di vista dell’esistenza individuale e collettiva. Viviamo in un mondo che nega la morte e la pandemia, se è possibile, la nega in senso assoluto, proprio perché ce la rende così “possibile”. Come dice Seneca: Ci vuole tutta la vita per imparare a vivere e, quel che forse sembrerà più strano, ci vuole tutta la vita per imparare a morire. E’ proprio nell’ “imparare a morire” che si vive una vita densa e creativa. E’ nella pulsione di vita, Eros, contro quella di morte, Thanatos, che si attiva ogni risorsa umana. Attivare meccanismi di negazione della morte, creare il “buco nero” dell’indicibile, attrae e annulla ogni cosa, negando il piacere e la creatività: la vita.

La nostra è un’epoca che rispetto alla morte vive un paradosso: la neghiamo e la nascondiamo. Nessuno vive più in contatto con i morti e la pandemia, annullandone la corporeità e la sacralità, ci ha sradicati da quanto è di più ancestrale all’umanità: ritualizzare la morte, celebrare la vecchiaia. In questo senso, la pandemia accelera e denuncia un processo implicito della postmodernità: il mito dell’accelerazione. In questo passaggio foucaultiano nel quale la “salute della popolazione” nasconde la necessità capitalistica della salute della produzione, le scelte politiche e sociali denunziano e disvelano l’atrocità della razionalizzazione, come già il secolo scorso e i suoi “campi”, le sue “eccedenze”. Restare umani, significa rilanciare significati e significanti: il riconoscimento della  bellezza e dell’unicità del cammino della vita che giunge alla vecchiaia, la conoscenza, il sapere che è nelle pieghe della sua pelle. L’estetica dell’unico che racconta storia. E’ la morte che coltiviamo in noi, negandola, e che non esterniamo socialmente che ci abbaglia e ci spinge a valutare in funzione di ciò che non è più e a non vedere ciò che è. La pandemia esplode le generazioni e ci provoca…

I vecchi dovrebbero essere esplorati  (Thomas Elliot)

 

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