Non uscivo sul balcone, prima.
Una vita proiettata verso l’androne, una vita senza catene apparenti, senza le quinte. Mai il lento caffè del dopo pranzo coi gomiti appoggiati sulla ringhiera, lo sguardo assonnato a cercare di rubare bocconcini di vita dei miei dirimpettai.
Non guardavo quasi mai dal balcone, prima.
Sollevavo distrattamente la tenda per capire se piovesse o facesse sole, giusto il tempo di decidere cosa indossare per uscire o – d’estate - di bagnare le poche piante che riesco a curare.
Invece, quattro giorni fa.
La costrizione dell’isolamento prolungato obbliga a guardarsi dentro e immediatamente dopo, se non si è sufficientemente forti, a vomitare lo sguardo fuori per non esplodere. Di paura, di rabbia, straniamento, sconforto.
Sono uscita in balcone, tre giorni fa.
Non avevo voglia di cantare, volevo ascoltare il silenzio da un’altra prospettiva. Ho provato. E il silenzio era forte. Nessuno in strada e quasi nessuno affacciato alle finestre. Due minuti contati per tornare alla poltrona.
Sono uscita sul balcone, due giorni fa.
Perché erano le tre del pomeriggio e le voci dei bambini mi disturbavano. Ne ho visti due che giocavano in cortile, lo stesso cortile che fino ad ora è stato esclusivamente un luogo di passaggio per chi prende l’ascensore. Giocavano a palla con la madre. Ho osservato per qualche minuto, distratta. Anche i due anziani signori del primo piano li guardavano, ho sentito che ricordavano che i loro figli scendevano tutti i pomeriggi dopo i compiti. Ma erano gli anni ’60…e altri discorsi così, discorsi da balcone.
Ho aperto la porta che dà sul balcone, ieri.
Non sono l’unica che cerca. Ancora i bambini, la coppia del primo piano. Si sono aggiunti gli studenti in affitto e la famiglia del secondo. Di fronte, le facciate grigie iniziano a macchiarsi dei colori delle magliette variopinte, dei pigiami e dei leggins. Due corridori si sono inventati un percorso tra i garage.
Oggi, sono come al solito sul balcone.
Ecco il significato del verbo brulicare! Una mamma stende e chiacchiera mentre la figlia piccina gioca e parlotta, una signora prende il sole come fosse al mare e probabilmente ha tempo di pensare, un ragazzo conta jump e squat e suda. Chi batte i tappeti, chi fa merenda sul tavolino da pic-nic riesumato dalla cantina, i miei vicini hanno sistemato i vasi delle piante che non sono mai state così verdi, lucide e rigogliose. Ci osserviamo tutti, ci salutiamo timidamente con un sorriso silenzioso o con un gesto del capo. Siamo accomunati da qualcosa di troppo grande che per il momento non ci va di raccontare.
Adesso.
I rumori intorno a me sono ancora rarefatti rispetto ad un mese fa ma, mentre prendo il caffè accarezzando svogliatamente la caviglia destra con il piede sinistro, penso che noi piccoli esseri umani siamo come i germogli che trovano la forza di farsi strada attraverso le crepe di un muro. La vita ha bisogno di vita e sta cercando strada dove prima c’era solo cemento.