Ho pulito l’orologio con l’alcol e un pennellino. È stato un lavoro di fino, ho raddrizzato le lancette, sistemato l’ingranaggio, ho cambiato le pile. Nel silenzio di questi giorni statici c’è stato un battito d’ali, tempo di rose che sbocciano da un giorno all’altro: tic, tac, le lancette hanno ripreso a girare.
«Hai voglia di provare a ripararlo? E sennò pazienza, lo butterò via. Certo, un po’ mi spiace, è qui da trent’anni».
Nonna mi porge l’orologio blu a forma di cuore che da una vita vedo sulla credenza della sua cucina. È un sabato di sole, aprile di pandemia: la strada che ho fatto per arrivare qui, portarle il giornale sui fiori, un po’ di pastina per la minestra e gli occhiali riparati con la colla quella buona, era deserta. Ho camminato con la solita angoscia nascosta dietro la mascherina, l’horror vacui del centro storico desolato. Ogni tanto un tricolore dai terrazzi, l’auto della Municipale che mi osservava.
Nonna va nei novantatré anni, non esce di casa da fine febbraio, da quando, pur di non rinunciare all’abitudine di andare a prendere la pensione, non ci ha detto niente ed è andata all’ufficio postale. L’abbiamo sgridata, ultimamente capita spesso, come con i bambini. Cerchiamo di vivacizzarle la routine sempre identica: non stare troppo a letto! Dai mangia, finisci almeno quello che hai nel piatto! Tranquilla!
Imperativi che ondeggiano al ritmo del suo umore altalenante: un giorno la sua voce irrompe vivace al telefono, nelle consuete chiamate a orari fissi per tenerle compagnia dove racconta di lavatrici e progetti; un altro giorno le sillabe sono strascicate, si perdono nella totale mancanza di voglia e di forze, è una litania di lamentele.
«Perché non mi addormento e non mi sveglio più, così la finiamo lì?» ha il coraggio di domandarcelo, quando passiamo semi-clandestinamente a trovarla in due, io e mia madre, contravvenendo alle regole.
«Ma cosa dici!» le rispondiamo cercando di non farci arpionare da quella tristezza cosmica che si ingoia ogni goccia di vitalità, ogni sguardo verso il futuro. Certo, avere novant’anni mentre fuori impazza una pandemia che ha sterminato decine di migliaia di persone, in larga parte anziani, non rassicura. Nonna non lo sa, non glielo abbiamo detto che se ne sono andati la sua migliore amica Bianca, da tempo in casa di riposo con l’Alzheimer, Nora e Luigi, altri nomi e volti della sua vita, e un po’ anche della nostra. A volte chiede, rispondiamo vaghi, ci vergogniamo delle bugie, della reticenza. Non glielo abbiamo detto per proteggerla dai mostri, per scacciare il pensiero, per non lasciarla ancora più sola, a rimuginare sulla fine, sulla morte. È sempre stata così: pessimista, rosa dall’ansia, con la tendenza a vedere il bicchiere mezzo vuoto. Papà ha preso da lei, e io per forza non potevo che prendere da loro due. È di famiglia.
Nonna vive da sola, a pochi passi da casa nostra, ma pur sempre sola, nei suoi scarsi metri quadri affacciati sul lungomare deserto e sul carruggio del panettiere. Ipotizza di uscire per andarci: non lo sa, non ci pensa, che è chiuso per la pandemia. Non sappiamo cosa abbia realmente afferrato dei discorsi drammatici e un po’ catastrofisti dei telegiornali. Una cosa così non l’ha mai vissuta nemmeno lei, che è nata nel Ventisette. Una cosa così rischia di ucciderla: abbiamo avuto paura, l’abbiamo costretta in casa, lei che amava il verde della sua campagna, i fiori, i gatti.
«Ci hanno rubato la primavera - commenta guardando fuori verso la strada silenziosa – è una brutta faccenda questa di sto maledetto virus, proprio brutta».
Annuisco, guardo l’orologio blu, fermo come questo tempo di stasi che ci stritola tutti, inchiodati in un presente pieno di incognite e paure. Metto a fuoco l’ossido sulle lancette un po’ arcuate, lo strato di polvere che si è fatta collosa con unto e vapori della cucina. Avremmo voluto fare grandi lavori in casa per aiutarla, questa primavera. Nonna non ci vede bene: è l’età, è la macula che le copre parte del campo visivo. «Vado indietro con la vista» se ne accorge da mesi, non fa che ripeterlo, la paura la attanaglia, il pensiero del buio. Ha il timore di non riuscire a leggere l’ora per calcolare quando dovrà farsi l’insulina – nonna è diabetica –, l’ansia di non vedere l’ago della penna con cui si deve bucare la pancia. Fa tutto da sola, a novantatré anni: un cassetto di medicine che fa invidia a quelli della farmacia, le scritte malferme sulle scatole con gli orari e la posologia.
Da quando ha avuto l’attacco di panico ci sono due scatole in più. Era il terzo giorno di lockdown, era marzo, faceva freddo e sui jeans con la maglietta da casa ho indossato il cappotto senza badare a nulla che non fossero le chiavi di casa sua.
«Sto male» ha chiamato pigolando con voce spenta.
L’adrenalina ci è schizzata in petto. Un’altra volta, come tante in cui ha suonato il telefono e si è fermato lo scorrere del tempo. Ospedali, ambulanze, barelle e flebo, operazioni d’urgenza, nonna che sparisce salutando portata via dai medici e io che sorrido per scappare subito dopo a piangere sulle scale esterne, da sola.
È la stessa sensazione di vuoto e panico che provo salendo le scale di casa sua due a due. Il cuore mi sconquassa il petto, ho una paura folle. “Non puoi farti sopraffare, devi essere lucida, ha bisogno di te, di voi” mi dico mentre procedo sulle rampe, cercando di tenere a bada l’agitazione, trovare un controllo che non ho mai avuto, essere forte, adulta, stare in piedi.
La porta di casa è aperta, entro col fiatone e sento un lamento. Corro in camera. Nonna è accovacciata sul letto, il viso grigio di chi sta male e non ne può più. È vestita. Ha preparato la borsa per l’ospedale sulla sedia.
«Cosa ti senti, cos’hai? – annaspo nelle parole, manca il fiato – arrivano tutti, anche mamma e papà, sono per strada».
«Voglio morire, portatemi in ospedale, chiamate il medico. Lo stomaco, non respiro…».
«Come l’ospedale! Adesso non si può, guai!»
«E non c’è un medico per me?» lo sussurra disperata, quasi piangendo.
Mia nonna ha un attacco di panico davanti ai miei occhi e non so cosa fare. Lo percepisco: il panico è calato sulla stanza e la tiene schiacciata in quella posizione infantile sul letto, ad abbracciarsi lo stomaco con i lineamenti tirati, a cercare ossigeno mentre le parole esterne rimbalzano contro il muro della paura, non riescono a penetrare, a offrire la mano.
Mia nonna è sola e disperata mentre sono qui davanti al suo letto, una morsa allo stomaco e tutto l’affetto del mondo fermo in gola, attonito davanti alla constatazione certa che sì, mia nonna ha un attacco di panico a novantatré anni, e io mi sento in colpa perché il mondo là fuori sta gonfiandosi in un’onda di dramma e crudeltà e noi l’abbiamo lasciata sola.
Ci sarebbe stato bisogno di parole, di pazienza, di ascolto. I nonni ripetono sempre le stesse cose, si sa, vanno indietro coi ricordi e non sanno più cos’hanno fatto ieri, non capiscono i fatti del mondo, o forse li capiscono fin troppo bene e sono già oltre. Mia nonna è sola nel letto con un attacco di panico addosso, e io non so come addomesticarlo.
È il terzo giorno di lockdown, non abbiamo ancora percepito la crudezza di quello che verrà e telefoniamo al medico curante, che la conosce da una vita. Per caso si trova in studio, è qui vicino, passa per gentilezza. Non sappiamo che non potrebbe, che presto non sarà più possibile, che avrebbe dovuto indossare i guanti e la mascherina. Non ci pensiamo, il cuore ansima nei petti, facciamo cordone per accoglierlo, con le scarpe da ginnastica, la borsa di cuoio usurato e la parlata dialettale. Basta poco a rassicurare nonna, basta parlare la sua lingua.
Respiro, stetoscopio, febbre, controlli di routine. E buffetti sulle guance, e coccole.
«È un attacco di panico» sussurra a me e mio padre mentre si siede al tavolo per prescrivere i farmaci contro la gastrite nervosa.
Erano quasi cinquanta giorni fa. Era una mattina fredda di marzo, inverno e buio presto. Era un altro mondo, e intanto l’orologio blu si è fermato. Si è fermato il tempo in questa primavera rubata, nel tempo assurdo in cui ogni mattina nonna ha bisogno di qualcosa, e ogni mattina mio padre va al supermercato per comprare poco e niente. Altro che spesa cumulativa per frequentare poco i locali pubblici: nonna non esce da fine febbraio, non lo sa che il mondo là fuori non è più quello di prima. Si è fermato il tempo e lei si sveglia alle due di notte, credendo sia mattino si misura la glicemia, magari la legge al contrario e crede di averla a cinquecento invece che a centoquindici. È un attimo, l’attacco di panico arriva strisciante e le prende lo stomaco. Ci telefona, ci chiede se ha sbagliato a prendere pastiglie, gocce, a mangiare questo o quello. Vive di ansie, la divorano, la annullano.
«Mi sento una mano sul petto» racconta a volte la mattina. Non crede siano “i nervi”, non crede a niente e ancora invoca la morte, e ancora vorrebbe andare all’ospedale, fare i raggi allo stomaco.
«Nonna, i raggi si fanno alle ossa, non allo stomaco!» sorrido io per alleggerirla. E vedo gli occhi confusi sotto i capelli arruffati che non conoscono la parrucchiera da troppo e sono già incredibilmente bianchi, spettinati e vittime dell’incuria che tutto copre in questo tempo bloccato.
«Io me lo ricordo il 25 aprile, me lo ricordo» mi annuncia quando le dico che aprile è quasi finito, tra poco cambiano le regole e forse potremo portarla in campagna. Ho pronto il registratore del telefono con cui sono solita fissare i suoi racconti del tempo di guerra. Le escono così, all’improvviso, bisogna stare pronti. Ultimamente si confondono anche, aggregano episodi che in altri momenti erano staccati. Chissà dove si nasconde la verità, in questa testa sconvolta e agitata dall’ansia. Del 25 aprile non racconta più, distratta da altro. È così: i ricordi arrivano a sprazzi, come onde sulla battigia.
«Quella mattina avevo litigato con mia mamma, furiosamente, ero scappata di casa». È marzo, siamo tutti a casa da tre giorni e il medico è appena andato via, abbiamo messo su la camomilla. La tensione si scioglie nel viso e nella voce della nonna che adesso, nel grigio di una mattina invernale, si è seduta in cucina e rovistando tra le medicine ha trovato una foto in bianco e nero della madre, uccisa sotto le bombe del 1943.
«Ogni tanto le parlo, sai?» mi sorride, è lontana coi pensieri,
La guardo con dolcezza, ma lei coglie solo la distanza muta, lo squarcio temporale che ci separa. Non si accorge che ho messo i freni alle lacrime, che mi angoscia l’idea di vederla così fragile, la schiena sempre più curva, le gambe magre magre, l’idea che se cade si spezza, e non si aggiusta più.
«C’erano tutte le macerie, non avevamo più niente, io e mio padre – parla delle bombe, della tragedia della sua famiglia – un grembiulino addosso, e nient’altro. Mi sono seduta per terra, non mi sono mica accorta che ero sopra una bomba inesplosa. E mio padre, bella stella, mio padre ha sgranato gli occhi, non voleva spaventarmi e con dolcezza mi ha preso le mani, mi ha detto alzati, fai piano, ecco. E siamo scoppiati a piangere».
Nonna ha appena superato un attacco di panico, siamo bloccati in casa da tre giorni, sorseggia la camomilla e piange pensando alla guerra.
Mi sento un macigno addosso: bisogna proteggere questa creatura fragile, bisogna salvarla da se stessa, dal logorio del tempo, bisogna evitare di arenarsi qui, anche se il futuro è invisibile, proprio come lo legge lei. Lei che per fare i nostri numeri al telefono impiega minuti: li legge uno per uno dal foglio che tiene sul comodino, ci siamo noi tre, scritti a caratteri cubitali, ma non basta, serve una torcia, c’è bisogno di luce. Lei che vacilla, passa un sacco di tempo a letto e non sa più stare in piedi, implode sui suoi quarantasette chili, afferra mobili, maniglie, schienali per sollevarsi o tenersi, non si appoggia al bastone ma lo tiene come una borsetta, sull’avambraccio, ed è inutile dirle che non serve a niente così, non la aiuterà a non cadere.
«Forza, basta letto!» irrompiamo in casa la domenica sera, quella che precede la cosiddetta fase due: è arrivato maggio, il mese delle rose. Abbiamo curato aiuole e vasi, tolto le erbacce, trapiantato le ortensie, le prime fragole arrossiscono sotto al sole: la aspettano.
Ma nonna è sdraiata sul materasso che vorremmo girare sul lato estivo, la stessa posizione fetale di quando l’ho trovata quel giorno di marzo, col cuore in gola. Sorride, vorrebbe stare a letto e farsi vincere dalle forze. Siamo più convincenti del suo sorriso di bambina novantenne, la facciamo tirare su. Si aggrappa a tutto, la assistiamo senza sorreggerla: ce la deve fare da sola. Avanti e indietro dalla cucina alla stanza, frastornata, senza ritmo e fuori dal tempo. Le sono dietro, la osservo, fragilissima, la vita della gonna che non sta sui fianchi e tende a scenderle, a farla inciampare. La schiena è sempre più storta, le scapole e le spalle fragili spuntano dalla maglia troppo pesante. Nonna, non cadere, penso mentre la seguo discreta pronta ad acchiapparla al primo cedimento. Le facciamo fare le scale, fuori. Si aggrappa al corrimano con un’energia di riserva, agguanta la ringhiera e sale vorace di libertà, perché vuole ancora andare, basta ricordale che può. Piano piano, senza pesi sul cuore, senza gli orari scanditi delle medicine, senza il mondo che impazza e infuria, senza un’altra guerra che non sia la lotta personale per sfidare il tempo.
Ho pulito l’orologio con l’alcol e un pennellino. È stato un lavoro di fino, ho raddrizzato le lancette, sistemato l’ingranaggio, ho cambiato le pile. Nel silenzio di questi giorni statici c’è stato un battito d’ali, tempo di rose che sbocciano da un giorno all’altro: tic, tac, le lancette hanno ripreso a girare.
«Nonna, tieni, ti ho riportato l’orologio, l’orologio blu, quello a forma di cuore che avevi sulla credenza. Funziona, sai? Così lo puoi rimettere dov’era prima, così torna un po’ di normalità».