Mentre infuria la guerra nella Ex-Jugoslavia, dei movimenti pacifisti, che pure non sono inerti, si parla poco, sempre meno. Pagine intere dedicate dai giornali alle notizie della guerra, poche righe alla catena della pace di Ferragosto cui hanno partecipato migliaia di persone. Voce nobilissima quella dei promotori di pace. Ma chi l’ascolta? Forse che i signori della guerra ascoltano le parole del papa? Realisticamente, chi crede davvero che l’invocazione alla pace degli uomini di buona volontà possa cambiare il corso della guerra e possa mai avere una influenza determinante sul tragico destino dei popoli offesi?
Si direbbe che una virtuosa manifestazione di uomini di pace e la più crudele azione di guerra che semina morte siano due eventi che procedono l’uno accanto e contemporaneamente all’altro, senza mai incontrarsi. Ancora una volta abbiamo una drammatica conferma che nella storia i fautori di guerra sono più forti dei costruttori di pace. Gli uomini hanno sempre invocato la pace e hanno sempre continuato a fare la guerra. Si sono sempre illusi che la guerra che stavano combattendo sarebbe stata l’ultima guerra. Se c’è stato un momento in cui ci si poteva aprire a questa illusione è stato la fine della guerra fredda senza spargimento di sangue. Ma l’illusione è durata poco. Delle innumerevoli ragioni per cui gruppi indipendenti entrano in conflitto cruento fra loro, gli storici non ignorano (e ce lo ha ricordato Umberto Eco in una recente intervista su questo giornale) le guerre che nascono dalla distruzione dei grandi imperi o dalla fine della coabitazione coatta fra gruppi etnici diversi. Non possiamo dire quindi di essere stati colti di sorpresa. Eppure non ne sono state tratte tutte le conseguenze. Altro è prevedere, altro è prevenire. Quando l’estate si avvicina, non è difficile prevedere gli incendi dei boschi, ma ce ne accorgiamo quando ormai sono divampati. E ogni anno ci si domanda, senza trovare una risposta convincente, chi li abbia appiccati. Oggi più che mai i temi del pacifismo devono essere riproposti alla nostra attenzione. Ma non si può parlare di pacifismo in generale. Pacifismo non è soltanto invocare la pace, pregare per la pace, dare testimonianza di volere la pace, accorrere a proprio rischio e pericolo nei luoghi dove la guerra imperversa. Questo è il pacifismo etico-religioso, che s’ispira consapevolmente alla etica delle buone intenzioni: “Fa’ quel che devi e avvenga quel che può”. Opporre la non violenza assoluta alla violenza, a ogni forma di violenza. Offrire l’altra guancia. Meglio morire come Abele che vivere come Caino. Tutte le guerre, in quanta tali, sono ingiuste. Si obietta però che il professare rigorosamente e coerentemente la non violenza assoluta serve a salvare la propria anima, ma non ha mai diminuito la violenza in questo mondo. Anzi, non è forse vero che la professata impotenza del mite finisce per favorire la prepotenza del malvagio? In un mondo in cui per osservare l’etica della non violenza tutti gli stati fossero disposti a gettare le armi, l’unico che si rifiutasse di farlo ne diventerebbe il padrone. Del resto, lo stesso Pontefice, in occasione della Guerra del Golfo, aveva dichiarato che la guerra è un’avventura senza ritorno, mentre in questi giorni ha ammesso la legittimità della guerra di difesa.
In risposta a queste obiezioni, i pacifisti di oggi si rendono conto che per diventare politicamente rilevanti debbono seguire l’etica della responsabilità: “Fa’ in modo che la tua azione non sia soltanto buona in sé, ma abbia anche conseguenze buone”. Di questa forma di pacifismo responsabile vi sono almeno due versioni che chiamerei, per distinguerli dal pacifismo etico-religioso, istituzionali, perché, al fine di risolvere il problema della guerra o, almeno, di limitarne l’estensione, entrambe ricorrono non soltanto alla parola, al gesto simbolico, in genere ad argomenti persuasivi, ma promuovono azioni preventivamente regolate e organizzate. La prima versione è quella che, richiamandosi alla distinzione ghandiana tra non violenza passiva e non violenza attiva, prevede la possibilità di predisporre una difesa, altrettanto efficace, fondata sull’uso di mezzi non violenti, come la resistenza passiva, la non collaborazione, il boicottaggio e così via. La seconda versione, più realistica, e, in quanto più realistica, meno rigorosa, è quella che si fonda sulla distinzione tra la violenza diffusa, e come tale incontrollabile, e la violenza concentrata e controllata, quale quella di un organismo al di sopra delle parti che dell’uso dei mezzi violenti abbia, esso solo, l’esclusività. Tutti dovrebbero capire che nell’ambito di uno Stato, che è il solo legittimato a usare la forza, la maggioranza dei cittadini non portano armi, mentre nel sistema internazionale, dove non è stato possibile finora costituire, nonostante l'Organizzazione delle Nazioni Unite, una forza al di sopra delle parti, tutti gli Stati senza eccezione sono armati. Tanto che uno Stato che non possiede un esercito non è un vero e proprio Stato, mentre un cittadino inerme non solo è un cittadino ma, almeno fino ad ora, è da considerare un “buon” cittadino.
Purtroppo la guerra in corso mostra l’insufficienza anche del pacifismo istituzionale in entrambe le versioni. Quel che è peggio, oggi constatiamo con angoscia che l’esclusività dell’uso della forza pubblica è ogni giorno sempre più minacciata. Uno dei fenomeni più sconvolgenti del mondo attuale è l’aumento crescente e irresistibile della violenza privata, della violenza di gruppi eversivi siano essi politici come quelli terroristici, siano soltanto criminali come le diverse mafie. Come può evitare uno Stato, anche con la polizia più efficiente, che un viaggiatore qualunque depositi una valigia carica di esplosivo in una stazione dove il portare una valigia non suscita alcun sospetto, o che il passeggero di una metropolitana nasconda un impercettibile deposito di gas micidiale? Il progresso tecnico ha reso sempre più potenti e insieme più disponibili gli strumenti di morte. La sfida ai costruttori di pace diventa ogni giorno più invincibile. Ci siamo difesi dal terrorismo aereo, seppure con costi di cui è difficile calcolare l’entità, col controllo dei bagagli negli aeroporti, ma come ci si può difendere dagli attentati sui treni, sui pullman, in metropolitana, da una macchina carica di esplosivo abbandonata sulla strada?
La verità è che nonostante gli innumerevoli istituti di ricerca della pace, fioriti in questi ultimi anni, non sappiamo nulla o quasi nulla delle cause delle guerre: economiche, sociali, politiche, etniche, ideologiche, religiose, metafisiche (la natura umana, il peccato originale, il castigo di Dio)? Chissa! Ma come si può trovare il rimedio al male se non se ne conosce la causa? Possiamo allora evitare che i realisti paragonino le manifestazioni per la pace alle processioni che un tempo facevano i contadini per invocare la pioggia, e inducano i giornali a non parlarne? Nessuna intenzione offensiva in queste parole. Ho partecipato anch’io a marce per la pace negli anni della guerra fredda. Se le gambe mi reggessero, lo farei ancora. Lo farei ancora perché? Ma perché so che se anche tutti i contadini del mondo si unissero per far piovere, la pioggia non verrebbe. Ma so anche che, se tutti i cittadini del mondo partecipassero a una manifestazione della pace, la guerra sarebbe destinata a scomparire dalla faccia della Terra.
Commento di Pietro Polito
Le due vie della pace: il pacifismo istituzionale e la nonviolenza. Sul discorso di Norberto Bobbio alla Marcia della Pace Perugia-Assisi, 24 settembre 1995.
Quando scrive il discorso Tutti a casa, anzi alla Marcia, poi pronunciato da Luciano Capuccelli, che è stato per alcuni anni Presidente della Fondazione Aldo Capitini, a conclusione della Marcia della pace Perugia-Assisi nel settembre 1995, infuriava la guerra nell’Ex-Jugoslavia. La scena mondiale era radicalmente mutata. Il mondo non era più diviso in due blocchi contrapposti e dal tempo della guerra fredda, una guerra parimenti crudele, e del bipolarismo – capitalismo contro comunismo, comunismo contro capitalismo –, dopo la prima speranza subitaneamente rivelatasi un’illusione di una possibile riforma in senso democratico del sistema internazionale, si è passati al tempo delle cosiddette “guerre umanitarie” combattute in nome del diritto (Guerra del Golfo, Kosovo, Afghanistan). L’atteggiamento fortemente critico nei confronti del pacifismo che aveva caratterizzato la posizione di Bobbio sulla Guerra del Golfo, schieratosi senza se e senza ma a favore dell’intervento, sembra stemperarsi in questo discorso del '95 in cui egli lamenta la scarsa attenzione riservata ai movimenti pacifistici che manifestano, inascoltati, contro il ritorno della guerra nel cuore dell’Europa.
È un Bobbio scorato quello che presenta una virtuosa manifestazione di uomini di pace e la più crudele azione di guerra come due eventi che procedono parallelamente senza mai incontrarsi. Gli uomini hanno sempre invocato la pace ma hanno sempre continuato a farsi guerra illudendosi che quella che stavano combattendo sarebbe stata l’ultima guerra. I temi del pacifismo, fa notare Bobbio, sono quanto mai attuali. Quale pacifismo? Certo non un pacifismo generico delle tante manifestazioni che disapprovano le guerre degli avversari ma non quelle dei propri amici. Qui egli insiste sui limiti del pacifismo etico-religioso, che s’ispira all’etica delle buone intenzioni, atteggiamento nobile moralmente, ma poco efficace politicamente.
Da notare in questo discorso è l’uso per la prima e forse unica volta dell’espressione “pacifismo responsabile”, con cui denota il “pacifismo istituzionale”.
La novità teorica qui enunciata anche se non sviluppata è che del pacifismo responsabile e/o istituzionale si possono distinguere due versioni: “il pacifismo giuridico di cui Bobbio è uno dei più autorevoli sostenitori (insieme, per esempio, al grande filosofo del diritto Hans Kelsen) e la nonviolenza, di cui in Italia il più autorevole rappresentante è stato ed è Aldo Capitini.
La prima è una versione più realistica che si fonda sulla distinzione “tra la violenza diffusa, e come tale incontrollabile, e la violenza concentrata e controllata, quale quella di un organismo al di sopra delle parti che dell’uso dei mezzi violenti abbia, esso solo l’esclusività”. Questa forma di pacifismo responsabile mira, se non alla pace integrale, alla riduzione della violenza nel mondo e nella storia, concentrandola in un’organizzazione internazionale, di cui le Nazioni Unite sono solo una pallida copia, il cosiddetto Terzo al quale gli Stati riconoscono e affidano il compito di dirimere le controversie internazionali anche, in ultima istanza, attraverso il ricorso alla forza.
La seconda è una versione più utopistica che si richiama alla distinzione gandhiana tra non violenza passiva e nonviolenza attiva. Forse è questo il punto di maggiore avvicinamento di Bobbio alla nonviolenza. Non cadono il pessimismo, il realismo, lo scetticismo tipicamente suoi che lo portano e lo hanno portato, per esempio in occasione della Guerra del Golfo, a non vedere di fronte al dispiegarsi cieco della violenza cieca altra alternativa che una violenza “razionale” altrettanto forte da prevenirla, contenerla, imbrigliarla fino a farla cessare. Tuttavia, in occasione della Marcia della pace del '95 egli significativamente inserisce la nonviolenza attiva tra le vie “responsabili” della pace per la possibilità e la capacità che essa ha di “predisporre una difesa, altrettanto efficace, fondata sull’uso di mezzi non violenti, come la resistenza passiva, la noncollaborazione, il boicottaggio e così via”. Molto probabilmente Capitini avrebbe salutato positivamente questa innovazione che l’amico Bobbio introduce nel giudizio sulla nonviolenza, ma non ne avrebbe fatta propria la conclusione pessimistica: “Purtroppo la guerra in corso mostra l’insufficienza anche del pacifismo istituzionale in entrambe le versioni”.