Si dice di solito che il fascismo non abbia avuto un’ideologia.
È un errore.
Possiamo dire tutt’al più che ha avuto un’ideologia che non condividiamo, che respingiamo, che non ci piace.
Bobbio, L'ideologia del fascismo, Biblion Edizioni, Milano, 2023
Tra i molti “primati” e le tante innovazioni che hanno dato lustro all’Italia nel mondo arricchendo positivamente il campo dell’arte, della politica e del diritto, della scienza e della cultura, c’è anche un primato “negativo”: l’ideazione di un regime politico peculiare (limitato nel tempo) –il fascismo– caratterizzato però da un’ideologia i cui tratti distintivi permangono ancora oggi nelle più diverse manifestazioni: populismo, estremismo, violenza, razzismo, sessismo, ecc.
Le caratteristiche del fascismo (italiano) quale «regime reazionario di massa», «privo di moralismi e di complessi di colpa», risiedono infatti in una ideologia scaturita e basata sulla violenza, imperniata su alcuni disvalori quali: l’intolleranza verso la/e diversità e le minoranze; la fede nel principio di autorità; il principio di superiorità della nazione rispetto all’individuo; la riduzione della persona da soggetto di diritto e di diritti (anzitutto di libertà) a oggetto “passivo” di diritto, intendendo l’individuo in maniera strumentale e funzionale allo Stato e alla società (come elemento controllato in modo totalizzante dal potere politico e dall’ordinamento); il culto del capo, la propaganda e lo svuotamento del dibattito pubblico (parlamentare, mediatico, culturale).
Queste caratteristiche, o meglio questi costanti disvalori sono stati prontamente svelati e criticati da Piero Gobetti (1901-1926) una delle voci più precoci e «significative dell’opposizione al fascismo, prima che i diritti fondamentali di libertà fossero soppressi anche formalmente e la stampa venisse definitivamente imbavagliata». Quella fascista per Gobetti non è infatti una vera rivoluzione, ma una reazione violenta, un colpo di Stato, un’imposizione autoritaria a cui contrappone il suo modello di Rivoluzione Liberale e liberatrice. Una tirannide, quindi, quella fascista che già dai suoi esordi al governo aveva imbavagliato la stampa e ristretto i diritti di libertà, e che come intuisce Gobetti sarà guidata da «élites guerresche» che condurranno ad «una politica estera di prepotenze che (…) esporrà all'isolamento più dannoso» l’Italia. Le profezie di Gobetti si concludono, infine, con la previsione nefasta di un regime politico basato sulla violenza che inevitabilmente si sarebbe trasformato in dittatura con la limitazione fascista dei diritti politici elementari fondati sul suffragio universale e la conseguente soppressione delle libere elezioni come unico strumento per la selezione della classe politica.
Il fascismo come primato italiano: dall’ “autobiografia della nazione” al “paradosso dello spirito italiano”.
Il fascismo per Gobetti non era solo un regime politico o una contingenza temporanea, il fascismo «è stato qualcosa di più; è stato l'autobiografia della nazione». Il fascismo è quindi un fenomeno storico e politico ma non solo è, per Gobetti, “antropologicamente” qualcosa di più complesso, un fenomeno più profondo da analizzare al di là dell’aspetto istituzionale, dell’ordinaria amministrazione di un Mussolini al governo: «Il fascismo in Italia è una catastrofe, è un'indicazione di infanzia decisiva, perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell'ottimismo, dell'entusiasmo». Questa interpretazione del fascismo come autobiografia della nazione si contrappone all’analisi crociana «che considera il fascismo come una malattia intervenuta improvvisamente in un corpo sano», o alle concezioni del fascismo come reazione alla lotta di classe. Quella di Gobetti sul fascismo è, invece, una teoria della «rivelazione», la rivelazione delle tare storiche e delle malattie morali italiane, il fascismo è «l’esplosione virulenta di tutti i mali della nostra storia, di tutti i vizi del nostro popolo».
Al fascismo come autobiografia della nazione può essere affiancata un’altra linea di interpretazione gobettiana, quella del “paradosso”. Negli scritti raccolti postumi in “Paradosso dello spirito russo” (1926) Gobetti riesce a proporre una lettura differente rispetto al pensiero politico e storiografico comune sulla rivoluzione bolscevica. Già nel 1919 il giovane torinese vede dietro la facciata socialista della rivoluzione russa un paradosso, l’essere portatrice in realtà di una carica liberale. Una rivoluzione liberatrice perché orientata a «far scaturire dal basso un’affermazione autonoma», spronando il popolo alla consapevolezza delle «condizioni della sua libertà, perché si senta proletario e responsabile dei suoi destini». La stessa linea di interpretazione gobettiana tesa a svelare e valorizzare il “paradosso” può essere applicata al primato negativo del fascismo con cui l’Italia deve convivere.
Al fascismo come eterno ritorno o eterna tensione negativa si vuole rispondere col paradosso dello spirito italiano: il paradosso di dover convivere ancora oggi con manifestazioni del fascismo ideologico, con la responsabilità storica del primato fascista, ma al contempo con il dovere di proporre un rinnovato antifascismo etico e democratico, costruttivo e propositivo, orientato alla creazione un sistema di autodifesa, di una memoria storica da convertire in apparato immunitario (nella società civile e nelle istituzioni), in strumento di rifiuto e reazione verso le nuove derive autoritarie e antidemocratiche della contemporaneità. Può questa scomoda convivenza con il “primato” italiano del fascismo convertirsi oggi non in nostalgia o riferimento storico-culturale? Facendo propria la formula gobettiana del “paradosso”, il primato italiano del fascismo non è da omettere o da riporre nell’oblio, ma proprio come il “paradosso dello spirito russo” che spronava il popolo «a farsi responsabile dei suoi destini» e alla consapevolezza delle «condizioni della sua libertà», così la memoria storica dell’esperienza fascista in Italia può determinare un popolo più responsabile e potenzialmente più capace di lottare per le sue condizioni di libertà, di riconoscere certi tratti ideologici del passato e di difendersi dalle nuove derive reazionarie e antidemocratiche.
Ancora oggi, infatti, nelle culture politiche reazionarie, conservatrici, nazionalistiche di certi Stati, alcuni dei tratti distintivi e dei disvalori del fascismo come ideologia tendono a riemergere e a prevalere sui valori democratici e sulle procedure e i principi che conformano uno Stato di Diritto (la tutela dei diritti e delle libertà della persona, il rispetto della separazione dei poteri, la salvaguardia del pluralismo, ecc.). Nell’analisi storico-politica la categoria di populismo ha finito per nascondere le radici ideologiche di certe culture politiche, che tramite la ricerca spasmodica del consenso (talvolta anche attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione), preferendo al discorso politico “razionale” il ruolo carismatico del leader e riducendo il parlamentarismo a partitocrazia, hanno prodotto forme di governo “forte” definite come autocrazie.
Questi tratti negativi sono certamente dei “mali” della contemporaneità politica, non tutti comunque riconducibili all’ideologia del fascismo e spesso comuni ad altri regimi dittatoriali (alcuni di questi disvalori erano anche caratteristici del pre-fascismo). C’è però oggi un ritorno non trascurabile ad un nucleo di riferimenti culturali e ideologici reazionari, visti come fondamento di tradizioni, usi sociali e memorie, utilizzate tuttora per interpretare la realtà, per cui è sempre più necessaria un’attenta analisi storica e una profonda ricerca politologica, per esaminare il motivo di certi “ritorni” e “nostalgie”, le ragioni di un’attrazione verso un’amara “lezione” evidentemente non del tutto (e non da tutti) appresa dalla Storia.