Bobbio, la guerra e noi. Celebrando il 25 aprile
di Alessandro Galvan


In un saggio del 1966 intitolato Il problema della guerra e le vie della pace Norberto Bobbio scriveva: “Bisogna fare i conti con i pessimisti, perché potrebbero avere ragione. Potrebbero, ma non devono”. Le parole del filosofo torinese si riferivano a tutti coloro che, circa sessant’anni fa, consideravano possibile che la Guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica si trasformasse in una Terza guerra mondiale, con l’utilizzo di armi atomiche che avrebbero prevedibilmente distrutto l’intera umanità e devastato il Pianeta. Gli ottimisti, notava Bobbio, tendono a escludere la possibilità di un nuovo conflitto, ma le loro speranze sottovalutano il rischio atomico e perciò rischiano di essere illusorie. I pessimisti, invece, hanno una visione più lucida e disincantata delle conseguenze terribili che provocherebbe una guerra nucleare, quindi ci aiutano, almeno, a mantenere vigile la nostra attenzione e cauto il nostro agire.

Bobbio aveva conosciuto bene la dittatura fascista. Al di là di qualche cedimento morale che avrebbe ampiamente riconosciuto negli scritti autobiografici della vecchiaia, era stato, durante gli anni della Seconda guerra mondiale, un antifascista convinto. Aveva abbracciato e sostenuto i valori della Resistenza, attraverso i quali l’Italia migliore – quella che lui avrebbe semplicemente chiamato l’“Italia civile” – si risollevava e “risorgeva” combattendo, per riaffermare la libertà come valore fondativo di una nuova stagione politica per il nostro Paese. Sapeva che non sarebbe stato possibile liberare l’Italia dall’occupazione dei nazisti e dall’oppressione dei fascisti della Repubblica Sociale Italiana senza l’intervento militare degli Anglo-Americani e senza l’azione tenace e determinata della guerra partigiana. Il filosofo torinese non era certo un teorico della non-violenza – alla quale rimproverava scarso “realismo” – ed era perfettamente consapevole del valore etico e politico della lotta armata contro un potere violento e liberticida, ma riteneva che – dopo la fine del Secondo conflitto mondiale e l’ingresso nell’“era dell’atomica” – l’unica posizione ragionevole fosse quella di un “pacifismo attivo”, consapevole del fatto che la guerra tra superpotenze dotate di armi nucleari era ormai diventata ingiustificabile. Essa doveva essere scongiurata mettendo in atto tutti gli sforzi e percorrendo tutte le vie politiche e diplomatiche possibili. Se infatti Hegel, nell’Ottocento, aveva potuto ancora paragonare la guerra all’agitarsi dei venti “che preserva i laghi dalla putredine”, Bobbio notava come, nell’era dell’atomica, un conflitto armato assomigliasse piuttosto a una tempesta devastante su un fragile raccolto.

Il saggio di Bobbio sviluppava ragionamenti puntuali e sobri su un tema che agli occhi di molti sembrava, nel 1966, puramente accademico: proprio perché la guerra atomica sarebbe catastrofica e autodistruttiva – sostenevano in molti, liquidando la questione – semplicemente, non ci sarà. La storia ha però ormai mostrato chiaramente, in più di un’occasione, che i conflitti armati non si verificano solo quando rispondono all’interesse o alla volontà esplicita di qualcuno, ma anche quando – per varie ragioni, spesso imprevedibili – non si riesce ad evitarli.

Per questo vale la pena porsi oggi alcune domande, visto che è in gioco non solo la sopravvivenza della nostra civiltà, ma l’intera vita sulla Terra. Siamo noi oggi in grado di fare previsioni sufficientemente credibili sugli sviluppi della guerra in corso in Ucraina, una guerra – vale la pena ricordarlo – che nessun analista o politico è stato in grado di prevedere ed evitare? Tralasciando qui il complesso discorso sulle cause profonde del conflitto, abbiamo una sufficiente conoscenza delle intenzioni del Presidente della Russia e dei suoi stretti collaboratori riguardo al futuro? Dove vogliono davvero arrivare con la loro aggressione militare agli Stati confinanti? Siamo inoltre in grado di dire quale via concreta – quale tattica e quale strategia – da parte dell’Europa – possa scongiurare un conflitto di portata devastante? Lo schieramento aperto ed esplicito – che si traduce in sostegno militare – dei Paesi europei a favore dell’Ucraina in nome di principi ideali non negoziabili, come l’autonomia dei popoli e la resistenza all’aggressione, è davvero e senza ombra di dubbio la via più ragionevole?

Sì, sostengono in molti, perché è giusta in sé e perché, in ogni caso, indebolirà la Russia costringendola in tempi più brevi a negoziare e a rinunciare alle proprie pretese inaccettabili.

No, obiettano altri, perché la fornitura di armi da parte dell’Europa e degli Stati Uniti contribuirà solo ad esacerbare il conflitto, rendendolo più lungo e sanguinoso e favorendo una escalation che potrebbe produrre disastri economici e sociali che al momento sono forse inimmaginabili.

Ma davvero qui si tratta di un’alternativa secca tra difesa della libertà (a tutti i costi) e difesa della vita (a tutti i costi)? Davvero si tratta di scegliere necessariamente una delle due opzioni per escludere l’altra? Volere la libertà può significare solo “alimentare il conflitto” fino alla sconfitta (o alla desistenza) della Russia? E difendere la vita può significare solo “arrendersi” alle sue pretese irricevibili?

Ritengo che un’alternativa così impostata ci imprigioni in un dilemma tragico, in cui la scelta di armare il Paese aggredito rischia di danneggiare proprio la libertà che si vorrebbe difendere (facendola diventare un “feticcio”), così come la scelta del “non-intervento” rischia di danneggiare proprio la vita che si vorrebbe preservare (svuotandola di quella “dignità”, senza la quale si riduce a servitù politica). Dentro questo dilemma, possiamo affermare con certezza che una delle due scelte sia preferibile? Bisognerebbe piuttosto  chiedersi: a cosa si riduce la libertà quando la guerra devasta le vite? E che cosa resta, d’altra parte, della vita (autenticamente umana) senza libertà?

Domande terribili, da affrontare con onestà intellettuale e senza chiassose semplificazioni, facendo al contempo tutto il possibile per individuare un percorso differente da quelli seguiti sinora, per arrivare alla pace o, almeno, a una tregua. Strada stretta, strettissima, si dirà. Ma forse unica chance di evitare l’irreparabile. Chi intende infatti mantenere vivo l’esercizio del pensiero ha “il diritto – diceva Bobbio in Politica e cultura (1955) – di non accettare i termini della lotta così come sono posti, di discuterli, di sottoporli alla critica della ragione”. E ha il dovere, aggiungerei, di restare lucido ed equilibrato. E allora diventa necessario, ad esempio, distinguere tra forme diverse di “resistenza”: quella ucraina non è identica, sotto molti aspetti e per molte ragioni, a quella dei partigiani italiani durante la Seconda guerra mondiale. Occorre evitare usi impropri di termini e concetti controversi, come quello di “genocidio”, che non aiutano la comprensione dei terribili eccidi e delle atrocità compiute dai militari russi in terra ucraina. Bisognerebbe inoltre ricordare che anche il peggior nemico, quello che si macchia delle più orribili nefandezze – contro le quali ci schieriamo nel modo più chiaro e netto – potrebbe essere, domani, l'interlocutore con il quale ci troveremo a negoziare la pace. È fondamentale, infine, evitare di farsi “arruolare” dalla propaganda di guerra (oggi tanto invasiva e potente, quanto “anestetizzante”) e sforzarsi di procedere con cautela e senza ipocrisia nell’analisi dei fatti.

Il 25 aprile è un giorno di festa nazionale, è un giorno di celebrazione. È la festa delle donne e degli uomini liberi di oggi che rendono omaggio a chi, ieri, ha scelto di combattere per un’Italia nuova, progressista, adulta, solidale, giusta. È un giorno gioioso, ma che ci invita, ora più che mai, anche a una profonda riflessione: non solo su ciò che è stato fatto da altri, ma soprattutto su ciò che possiamo fare noi – ciascuno in base alle proprie possibilità e al proprio ruolo sociale – per favorire una cultura in cui LIBERTÀ e PACE non siano alternative tra cui scegliere, ma assi portanti su cui costruire un futuro di confronto democratico e di collaborazione civile. Il compito è arduo, non bisogna nasconderlo. Il lavoro da fare è enorme e può sembrare disperato. Tutto, intorno a noi, sembra remare nella direzione contraria. Ma se il dovere della cultura è anche quello di far maturare la coscienza civile dei popoli e costruire una casa comune per tutte le nazioni, occorrerà provare a ripartire dalle fondamenta, dal tesoro ricchissimo che ci è stato consegnato dalle più nobili figure del passato, per renderci degni eredi del loro insegnamento. Occorrerà pensare e costruire, insieme a risposte decise ed intransigenti sul piano etico, percorsi negoziali capaci di contemplare, insieme all'etica della convinzione, anche quella della responsabilità.

Ascoltiamoli dunque con attenzione e rispetto, i pessimisti di cui parlava Bobbio. Ma “non dovranno avere ragione”. Il nobile esempio della “Liberazione” dovrà illuminarci, oggi e domani, nella costruzione difficile di una cultura della pace sotto il segno della libertà.

Centro studi Piero Gobetti

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