Guerre giuste e paci ingiuste
di Santina Mobiglia


Nel dibattito sulla guerra in Ucraina resta spesso sullo sfondo la dimensione tragica dei dilemmi etico-politici cui ci pone di fronte: opzioni radicali fra beni in sé, o all’inverso fra i due mali che ne conseguono. Innanzitutto fra libertà e vita, libertà e pace. Ma quale vita? e quale pace? ciascun termine, alla luce del dubbio analitico cui ci ha abituato Bobbio, si scompone a sua volta in due opposti:
1) la vita come pura sopravvivenza a sacrificio della libertà (morire per Danzica?) o una vita degna che non voglia rinunciarvi?
2) la pace come resa e sottomissione all’aggressore (la Francia di Vichy?) o invece inseparabile dalla libera convivenza?
       Tutti sono concordi su torti e ragioni, da una parte l’aggressore dall’altra l’aggredito, ma non altrettanto su ciò che spetti a ciascuno per porre fine alla guerra. Serpeggia sui media un certo fastidio verso Zelensky, come se l’ostinata scelta di non cedere fosse dettata da una irriducibile etica della convinzione, per cui in nome del valore supremo della libertà si allontana ogni prospettiva di pace e “accada quel che può”, senza badare alle conseguenze. Ma possiamo interrogare anche l’etica della responsabilità, che commisura i princìpi ai risultati auspicabili: l’esito di una “pax romana” imposta dal vincitore quanto può essere stabile e durevole? e le rinunce territoriali o all’autogoverno non porteranno invece ad incoraggiare ulteriori azioni belliche in nuove direzioni?
       Le risposte a questi dilemmi, che interrogano e mettono alla prova convinzioni morali, gerarchie di valori, hanno un implicito presupposto nel giudizio sulla realtà della guerra in corso, sulle motivazioni e obiettivi dei due fronti. Penso dunque sia bene, nell’esprimere un punto di vista, farlo discendere dalla valutazione dei fatti, delle premesse del conflitto e delle logiche degli attori in campo. Se mi dilungo nel racconto di fatti ben noti, è per esplicitare i punti di possibili divergenze o convergenze di giudizio.
       Di fronte all’invasione russa gli ucraini hanno scelto di combattere in difesa della libertà e dell’autodeterminazione in nome del legittimo diritto di resistenza, e lo stanno facendo con una determinazione e tenacia impreviste e sorprendenti, nel corso di un processo che è stato anche di costruzione di una identità nazionale civica e plurale, intollerabile per Putin che vuole convincerli a suon di bombe di essere figli della “madre Russia” a loro insaputa. Processo che era stato avviato dalle cosiddette rivoluzioni “arancione” (2004) e “della dignità” (Euromajdan, 2014) che chiedevano elezioni trasparenti e l’associazione all’UE, rigettata dal presidente Janukovič. La guerra in Ucraina era iniziata allora, nel 2014, con l’annessione della Crimea e la presenza militare russa nel Donbass, come rivalsa contro il fallimento di Janukovič, fuggito in Russia dopo un uso indiscriminato della violenza contro i manifestanti. C’era stato dunque un movimento popolare per la democrazia, rimasto nella memoria come nuovo atto fondativo della nazione, che con la caduta del governo filorusso aprì la strada a un nuovo corso politico con libere elezioni.
       La guerra in corso appare dunque come ultimo atto di un lungo conflitto tra progetti neoimperiali e aspirazioni nazional-risorgimentali fino alla resistenza armata che speravamo di poter considerare anacronistici dopo la seconda guerra mondiale almeno in Europa. Una resistenza che credo meriti di essere sostenuta con ogni mezzo, aiuti umanitari, accoglienza ai profughi, compreso il sostegno militare, che ha quanto meno evitato finora la caduta di Kyiv e l’imposizione di un governo fantoccio. Si può dire abbia contribuito a prolungare la guerra, ma siamo sicuri che gli ucraini non avrebbero continuato a combattere con un numero ancora maggiore di vittime? In Bosnia non avevamo inviato armi, ma la guerra è durata cinque anni. Mentre l’Onu si conferma il “Terzo assente”, paralizzato dalla presenza della Russia nel Consiglio di sicurezza, il pacifismo istituzionale ha giocato un ruolo con le sanzioni e l’embargo ancorché parziale, mostrandoci finora poco coraggiosi nell’estenderlo al gas, misura decisiva di cui andrebbe rivendicato il valore solidale del pagarne i costi, socialmente distribuiti, come in ogni scelta di opposizione nonviolenta. E l’invio di armi non significa un ripudio del pacifismo nella sua accezione positiva se è l’unico rimedio a impedire il soccombere di chi subisce un attacco. La nonviolenza attiva, nella stessa visione di Gandhi, contempla il ricorso alla violenza difensiva in casi estremi di fronte all’aggressore (come è stato più volte ricordato con l’esempio dell’accoltellatore che minaccia i passanti). Non invita alla rassegnazione la nonviolenza attiva: è una tecnica preventiva, tesa a impedire che un conflitto precipiti nello scontro aperto, ma una volta esploso non chiede di rinunciare alla lotta.
       Forse qualche azione preventiva era possibile, a partire dal 2014, per impedire l’acutizzarsi degli scontri nel Donbass e per smuovere dallo stallo dei fragili accordi di Minsk. L’occupazione della regione era stata denunciata da Boris Nemcov, il principale oppositore di Putin, ucciso pochi mesi dopo sotto il Cremlino. Democratico e riformatore, Nemcov rappresentava un’alternativa alla strada imboccata da Putin e il suo gruppo con il richiamo ideologico al “destino della Russia”, teso a inglobare i compatrioti della diaspora nei territori dell’ex impero sovietico e zarista, considerato lo spazio naturale del “mondo russo”. Ma allora eravamo distratti, disattenti alle logiche del Cremlino, nonostante i precedenti in Cecenia e in Georgia. E in una prospettiva di pace stabile (come già insegnava Kant ponendo come precondizione il superamento del dispotismo), la politica estera dovrebbe tenere in maggior conto la democrazia interna come criterio di affidabilità per le relazioni, anche commerciali, fra gli stati. Data almeno dal 2007 la svolta autocratica e neoimperiale di Putin, da allora esplicitata con chiarezza nei suoi scritti e discorsi, in opposizione all’Occidente decadente e corrotto e in particolare alla vicina Europa, tessendo con qualche successo fili sotterranei per scardinarne gli equilibri e tenerne a bada il contagio democratico nella sua sfera di dominio.
       Vedo in questa contrapposizione all’Europa gli obiettivi strategici della sua offensiva, più che nell’espansione della Nato, che non era in agenda per l’Ucraina dopo la dichiarazione di “porte aperte” da parte degli Usa nel 2008 subito respinta dal veto preventivo di Francia e Germania (e ci vuole l’unanimità dei membri per un nuovo ingresso, oltre che l’assenza di contenziosi territoriali). Difficile pensare che la più grande potenza nucleare e lo stato territorialmente più esteso del mondo possa sentirsi accerchiato da Polonia e paesi baltici ai cui confini dispone di missili ben più potenti nell’enclave di Kaliningrad. E dopo il crollo dell’Urss, come dice Michael Walzer, la Nato è stata più pull che push nell’Europa dell’Est, dove a chiedere con forza l’adesione erano state figure come Lech Walesa e Vaclav Havel. Un obiettivo propagandistico recente la minaccia della Nato per Putin, su cui non era difficile rassicurarlo, mentre provoca l’effetto opposto di un suo possibile allargamento a Finlandia e Svezia. Gli stessi Stati Uniti sembravano più proiettati verso l’Indo-Pacifico e il confronto con la Cina che interessati a esercitare un ruolo in Europa contro la Russia. Ora sono invece certamente coinvolti nello sconquasso che si è aperto nell’ordine internazionale.
       Anche rispetto alla ridefinizione degli assetti internazionali possiamo porci un dilemma: l’unica prospettiva è il ritorno a un realismo geopolitico ottocentesco, affidato alle grandi potenze che si spartiscono le sfere di influenza sulla base dei rapporti di forza, o si potrà tener conto della svolta del secolo scorso con la Carta dell’Onu sull’autodeterminazione dei popoli? Chi tratta e su cosa? A che titolo?
       Ciò che rende difficile un’auspicata trattativa che fermi la guerra in corso è un primo luogo l’assenza di un contenzioso specifico: se fosse limitato al Donbass, non c’era bisogno dell’invasione, bastava minacciarla, ma se invece l’obiettivo è “deucrainizzare l’Ucraina” nel quadro di una ridefinizione della sfera d’influenza russa ad ampio raggio, una trattativa di pace, che non sia una tregua provvisoria, ha contorni molto vaghi. Tentativi ci sono, ufficiali, ufficiosi, sottobanco, ma non basta invocare una trattativa senza soluzioni chiare se la controparte si sottrae per misurare sul campo i rapporti di forza. E per ora Putin non ha fatto passi indietro, neppure su un cessate il fuoco.
       Come evitare infine una escalation che metta in gioco il rischio nucleare? È il dilemma estremo, che apre a un’alternativa del diavolo: cedere al ricatto vuol dire, da un lato, prefigurare un sistema hobbesiano di relazioni internazionali in cui in nome della sicurezza è la volontà di potenza a dettar legge, dall’altro aprire la strada a una gara incontrollata fra gli stati a dotarsi di armamenti nucleari come punto di forza della politica estera. Come contrastare la logica del terrore, contenerne i rischi, e al tempo stesso stare dalla parte del debole nello scenario attuale? Questa la posta in gioco. Che richiede, oltre alla vigilanza contro un allargamento del conflitto, la capacità di portare al tavolo i contendenti, in cui il rapporto di forze sul terreno è una condizione non trascurabile per far uscire allo scoperto le ambizioni di Putin di fronte alle garanzie offerte da Zelensky di una Ucraina neutrale e impostare su queste basi una vera trattativa. Non ho soluzioni da proporre, vorrei solo continuare a chiedermi se nell’era atomica, in cui più che mai non ci sono “guerre giuste”, dobbiamo rassegnarci alle paci ingiuste.

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