Sospensione

Chiudendo gli occhi però, potevo mettere in atto un semplice artificio che funzionava sempre: ritornare in modalità sogno. Una realtà parallela in cui potevo immaginare di essere diversa, vivere altre esistenze, avere poteri straordinari e dunque fare qualsiasi cosa, persino volare sulla città spaziando di quartiere in quartiere, osservando dall'alto vie, piazze, edifici e giardini; ogni luogo legato ad un'esperienza, un ricordo, persone appartenenti al mio vissuto.

Maria Grazia Casagrande

E se uscissi adesso? - mi chiedevo svegliandomi nel cuore della notte dopo sonni agitati; e subito nella mia mente iniziavano ad affollarsi i pensieri più lucidi, vere e proprie epifanie che mi sforzavo di trattenere, di memorizzare; ma a volte, non riuscendo nell'intento, ero costretta ad alzarmi per trascriverle.
Uscivo sul terrazzo per osservare il cielo, ma una volta fuori mi rendevo conto di come la realtà fosse ben più cupa dei miei sogni. Tutto era così buio nelle case di fronte, sembravano disabitate; le strade erano deserte e i semafori lampeggiavano a vuoto su incroci in cui passava incurante qualche folata di vento.
Il silenzio era a tratti interrotto dal latrare di un cane in lontananza o dallo sfrigolare inquietante della centrale elettrica. Tutto sembrava irreale e persino gli alberi parevano immobili, come in attesa di un gesto, un cenno di vita. Era l'immagine di una città sospesa che la luce metallica della notte rendeva minacciosa.
Mille parole erano state dette, fiumi di pagine scritte, ospedali pieni,
fabbriche vuote, promesse di ripresa - ma quando? Fra una settimana, due mesi, un anno? Nessuno sapeva rispondere. E la gente intanto, mentre arraffava l'ultimo pacco di farina al supermercato, si chiedeva come avrebbe fatto a pagare l'affitto, il mutuo, la prossima spesa.
Ciò che più spaventava le persone era quel crescere di notizie allarmanti e il quotidiano conteggio di morti e contagiati; nessuno sapeva più districarsi fra complottisti, notizie contrastanti su vaccini e medicine improvvisate; tutto un fiume di parole che quotidianamente venivano sfornate da giornali, radio, blog raffazzonati, per poi essere ritratte altrettanto velocemente il giorno dopo.
In quei mesi febbrili ero uscita raramente, giusto per qualche commissione urgente, per liberarmi dei rifiuti o fare il giro dell'isolato; ogni volta bardata con guanti e mascherine, ogni volta con il timore di sfiorare inavvertitamente qualcuno o di incappare in qualche balordo pronto a provocare una rissa. Perché, come sempre accadeva nei momenti di crisi in cui ancora non era ben chiaro come ci si dovesse comportare, capitava che qualcuno si promuovesse a paladino della giustizia sentendosi autorizzato a farla rispettare, seguendo però dei parametri strettamente personali che comprendevano anche l'eventualità di malmenare il malcapitato di turno.
Nelle giornate di sole avrei voluto uscire per passeggiare in libertà, incontrare le amiche, fare un salto in libreria per risentire quel profumo inconfondibile della carta stampata; ma dovendo restare in casa mi accontentavo del mio piccolo terrazzo da cui potevo osservare la città e ascoltare il cinguettio allegro dei passeri.
Chiudendo gli occhi però, potevo mettere in atto un semplice artificio che funzionava sempre: ritornare in modalità sogno. Una realtà parallela in cui potevo immaginare di essere diversa, vivere altre esistenze, avere poteri straordinari e dunque fare qualsiasi cosa, persino volare sulla città spaziando di quartiere in quartiere, osservando dall'alto vie, piazze, edifici e giardini; ogni luogo legato ad un'esperienza, un ricordo, persone appartenenti al mio vissuto. Visto dall'alto tutto appariva chiaro, ogni avvenimento comprensibile, ogni rimprovero giustificabile, perché quel puzzle di situazioni era servito a plasmare la persona che ero diventata. Ero scesa dal terrazzo librandomi nell'aria con maestria, e sorvolando il corso ero giunta sopra la mia scuola elementare; uno spazio trasformato in un'associazione culturale chiamata Hiroshima Mon Amour, punto di riferimento per i ragazzi, per eventi e festival musicali. Ma quel luogo, quel palco era la nostra vecchia palestra dove la maestra ci portava a fare ginnastica insegnandoci a salire sul faticoso Quadro Svedese o facendoci giocare a palla avvelenata.
Osservando quegli, spazi lasciati così com'erano, ero entrata nelle aule abbandonate ed avevo scorto le cartine dell'Italia ancora appesa alle pareti e i banchi ammucchiati alla meglio. C'era anche il mio banco, quello che la maestra mi aveva riservato accanto alla sua cattedra per fare breccia nella mia distrazione, ma io ero troppo provata dalla recente perdita di mio padre e non mi riusciva di concentrarmi sulle sue parole che mi parevano vuote. Tanto tempo dopo mi era capitato d'incontrare un giovane uomo ad una festa di matrimonio, lui si era avvicinato e con fare complice mi aveva detto: “ciao, ti ricordi di me? eravamo compagni di scuola alle elementari, e tu eri sempre seduta accanto alla cattedra”. Inutile dire che io invece non l'avevo affatto riconosciuto, mentre lui si ricordava tutto, persino il mio nome.

Prima di uscire con un lungo balzo, avevo salutato la mia vecchia maestra e riaperte le ali mi ero diretta verso un altro importante spazio dedicato
allo studio, la mia scuola media: il luogo per eccellenza in cui si materializzava il passaggio dall'infanzia all'adolescenza. Ricordo il buffo nome della nostra insegnante di Italiano, Eulalia Biddau, una giovane signora minuta che amava raccontarci le storie allegre dei suoi figli, i viaggi in Sardegna, le sue preferenze in fatto di abiti. Erano gli anni a cavallo del Sessantotto ma noi eravamo ancora troppo infantili per capire quali avvenimenti stessero sconvolgendo il mondo, e soprattutto eravamo turbate dai repentini cambiamenti del nostro corpo. C'era, nella nostra classe, una ragazzina molto studiosa e più consapevole del contesto storico-politico del momento per il solo fatto di avere una sorella maggiore che frequentava il liceo. Uscendo da scuola aveva preso l'abitudine di cantare un ritornello francese, che ovviamente noi non capivamo - ”ce n'est qu'un debut, continuons le combat!”- e nella nostra allegra incoscienza la prendevamo in giro.
Sorvolavo leggera sul mio quartiere ricordando la spessa nebbia che l'avvolgeva durante l'inverno, una coltre così fitta tanto da celare il cancello e costringerci a procedere a tentoni con le braccia stese in avanti per capire come muoverci per poter uscire; e persino le voci delle mie compagne, con cui condividevo lo stesso tratto di strada fino a scuola,
sembravano lontanissime seppure fossero ravvicinate, e rimbombavano metalliche nel vuoto.
Gli anni Settanta li ricordavo benissimo e dall'alto era ancor più facile osservare i lenti i cortei che sfilavano chiassosi lungo il viale che dalla palazzina portava al centro città.
"Vogliamo tutto e subito!" - urlavano nei megafoni sbandierando improvvisati striscioni su cui campeggiavano scritte che inneggiavano alla rivolta, mentre le maestranze dell'Avvocato restavano sigillate nei loro uffici a discutere sul da farsi.

Torino era divisa in due: da un lato la società operaia impacchettata dalla Fiat con asili nido, colonie estive, la mutua, i luoghi di degenza e di vacanza per i pensionati; e dall'altro la realtà intellettuale di via Biancamano, che si era pregiata di ospitare nelle proprie stanze nomi illustri come Pavese, Leone Ginzburg, Carlo Levi, e in cui avrebbero passeggiato Calvino, Guido Davico Bonino, Norberto Bobbio, Fruttero e Lucentini, Lalla Romano. Una presenza scomoda l'Einaudi, bandiera di una cultura 'alta' ma anche simbolo di un diverso orientamento politico apertamente ignorato dalle palazzine di corso Marconi il cui motto era: “Gli operai non devono avere il tempo di leggere e di istruirsi, perché si riempirebbero la testa di chissà quali fantasie”.
Il mio quartiere era parte viva della zona operaia della città ed io ne avevo assorbito umori, tristezze e speranze, senza mai rinunciare a leggere e a promuovere la lettura, nella ferma convinzione che solo la Conoscenza avrebbe potuto salvarmi dall'abbrutimento. Sorridevo pensando al primo libro che avevo preso in mano, annusandolo, come per verificare se potessi fidarmi. Era una raccolta di racconti di Nikolaj Vasil'evič Gogol e s'intitolava 'Il naso e altri racconti'; una storia buffa che mi aveva aperto gli occhi riguardo alle infinite possibilità che anche gli eventi più improbabili potessero accadere, e la mia curiosità era stata sollecitata a tal punto che non avevo più smesso di leggere. Mi ero soffermata a sorvolare ancora sui luoghi della mia infanzia, passando sopra ai cinema che allora frequentavamo, chiamati 'cinema di seconda o terza visione'; il chiassoso mercato generale in cui ci si perdeva fra profumi, colori e dialetti sparsi; i prati dove i pastori portavano al pascolo le pecore ed i cui spazi sarebbero stati presto occupati da alti condomini; la chiesa in cui ero stata battezzata, dove avevo fatto la Comunione, mi ero sposata, avevo battezzato i miei figli, celebrato la messa funebre per mia madre, e dove forse sarebbe stata celebrata anche la mia...
Poi ero volata lontano, dirigendomi verso il centro della città dove si sarebbe svolto il resto della mia vita scolastica e sociale. Un percorso lungo e non indolore in cui avevo incontrato persone divenute fondamentali per la mia crescita intellettuale, sebbene dovessi riconoscere che se non ci fosse stato quel profondo crepaccio nel difficile rapporto con mia madre non sarei certo diventata ciò che sono. Se non fossimo state così diverse, se lei non avesse imposto le sue scelte io non avrei potuto rispondere altrettanto impetuosamente imponendo le mie, e non mi sarei incaponita ad intraprendere una strada lontana anni luce da quella che lei aveva pensato per me.
Sapere esattamente chi eravamo e saperlo quando non era troppo presto né troppo tardi era un qualcosa che rasentava il miracolo; a quel tempo, forse, ero cosciente di ciò che ero e di quel che avrei voluto diventare, ma il vento delle circostanze a volte irrompe mischiando le carte e mettendoci di fronte a dei muri che in quei frangenti ci paiono invalicabili.
Posta di fronte alla negazione, alla perdita, all'impossibilità di vivere la vita immaginata, avevo dunque iniziato a scrivere tenendo una sorta di 'diario di bordo' e non mi ero più fermata.
E forse era stato meglio così, visto che ora ringraziavo mia madre per avermi messo più volte con le spalle al muro, permettendomi - suo malgrado - di consolidare le mie passioni, certa com'ero di essere nella giusta direzione e con l'arrogante convinzione che sarei stata migliore di lei. E se a tratti venivo presa dallo sconforto ripensando a come quel nostro legame avrebbe potuto essere meno conflittuale, mi confortava il mantra di Calvino che ripeteva come non ci fosse altro modo di diventare adulti se non tradendo chi ci aveva fatto nascere. Chissà quanto avrà sofferto nel vedermi sempre più lontana, irriconoscibile. Quanto le sarà pesato l'accettare farsi odiare pur di lasciarmi aperta la strada, facendo finta di tarparmi le ali.
Quel pensiero aveva riaperto una ferita lontana lasciando spazio all'inquietudine. Era inutile illudersi tanto eravamo soli, nessuno ci conosceva davvero, forse neanche noi stessi, presi com'eravamo dalla necessità di compiacere gli altri e di mentire, seppure a fin di bene - come dicevamo per alleggerirci la coscienza.

Il mio volo stava assumendo toni amari e osservando la mia città dall'alto cercavo d'ingannare la mente con altri pensieri; mi chiedevo cosa mai pensassero i passeri riguardo a quel silenzio lungo viali in cui prima scorrevano automobili, autobus e moto rombanti; cosa si raccontassero i pesci nuotando in acque inaspettatamente calme e pulite, o cosa rimuginassero fiori, cespugli e piante riguardo a quell'improvvisa quiete in luoghi in cui prima giocavano bambini, scodinzolavano cani e correvano atleti improvvisati. Animali e piante inizialmente in preda allo stupore di fronte ad una natura ritrovata, si erano infine riappropriati di quegli spazi vitali che noi avevamo rubato, invaso e annientato con estrema superficialità.
E proprio pensando alle piante mi era tornata alla mente un'immagine di Prya"jat vista dall'alto, una città che si trovava a circa 15 chilometri da Chernobyl - tristemente famosa per la centrale nucleare che era esplosa nel 1986. La città era stata evacuata subito dopo l'esplosione ma il livello di radioattività, purtroppo, era rimasto ancora molto elevato. L'immagine di Pryp"jat era quella di una città totalmente invasa dalle piante; là dove c'erano lunghi viali di scorrimento, auto in coda, pullman e rotaie ora c'erano siepi, alberi dalle ricche chiome, cespugli, e tutto aveva la parvenza di un'immensa foresta.
Dunque, pensavo, nonostante gli altissimi livelli di radioattività le piante non solo avevano resistito ma si erano moltiplicate divenendo selva con liane volanti, muschi ed esplosioni di fiori.
L'Uomo non sarebbe sopravvissuto a quei livelli di radioattività, le piante invece ce l'avevano fatta ed avevano proseguito a crescere riprendendosi spazi che noi avevamo avvelenato e distrutto; la nostra presenza quindi non solo non era fondamentale ma era anzi dannosa.
Ed ora che eravamo imprigionati fra quattro mura, in quanto contagiati da un'epidemia provocata dal nostro egoismo, ci sentivamo con le spalle al muro, impotenti di fronte all'inaspettato ed alla negazione di tutti quei diritti che pensavamo d'aver acquisito per sempre; impossibilitati a recarci nei luoghi di lavoro, ad uscire di casa, a portare i nostri figli a fare una passeggiata al parco; ed avendo affidato tutte le nostre identità nel lavoro ora non sapevamo neanche più chi fossimo e ci trovavamo nel vuoto e nello spaesamento più totale. Eravamo fragili, perdenti nonostante la nostra spavalda tecnologia, la globalizzazione e quel mondo diventato all'improvviso così piccolo tanto da spingerci alla ricerca di altri pianeti da abitare, o da distruggere.
I maleducati, purtroppo, restavano tali, perché neanche quell'emergenza li scalfiva più di tanto; e se prima buttavano per strada il pacchetto vuoto delle sigarette ora gettavano le mascherine usate; se prima facevano le grigliate nei boschi, ora le facevano in giardino in compagnia di chiassose parentele allargate. Erano molte le mine vaganti, gli imbecilli che avremmo dovuto contenere perché sarebbero stati capaci di falsificare qualsiasi documento, esame del sangue o tampone che fosse, pur di uscire, infettarsi, infettare. Avrebbero detto peste e corna di vaccini e cure, salvo poi infiltrarsi di soppiatto per arraffare la salvezza prima di tutti gli altri.
Nel frattempo sarebbero crollati altri ponti e inabissate autostrade, saremmo tornati a muoverci a piedi, rimanendo chiusi nei nostri piccoli mondi senza televisori, computer o telefonini e senza notizie dal resto del mondo, al massimo il racconto di qualche cantastorie di passaggio. Beni di consumo zero, cibo da procurarsi guardandosi alle spalle, campi da
coltivare spaccandosi la schiena; tutto da ripensare, tutto da ricostruire con i pochi mezzi che avremmo avuto a disposizione. Solo così, forse, ci saremmo salvati.
Tutto quel fiato sprecato, articoli e petizioni per chiedere il ritorno alla normalità non aveva alcun senso, perché normalità era sinonimo di morte.
Era su altre basi che avremmo dovuto pensare la ricostruzione delle nostre esistenze, servivano altri valori per annientare veleni quali l'egoismo, il narcisismo e l'individualismo; vere e proprie droghe per tenerci buoni di fronte ai nostri piccoli video, apatici e dunque facilmente governabili.
Ma un pensiero si era acceso all'improvviso, mentre viravo facendo ritorno verso casa, un ricordo lontano, come un'immagine sfocata. Mi era accaduto, in passato, di vedere un viso nella folla e credere di riconoscervi un volto noto, un'amica che non vedevo da tempo, un vicino di casa. Altre volte mi era successo di ascoltare conversazioni casuali sul tram, al mercato, in coda alla Posta, e di riconoscere in quei suoni una voce amica.
E quante volte avevo dovuto ricredermi perché quei tratti e quelle voci, che mi era parso di riconoscere, appartenevano invece a persone che ormai non erano più parte di questo mondo. E se di primo acchito lo smarrimento mi assaliva, inaspettatamente sopraggiungevano in aiuto i ricordi belli, riportando a galla qualche sbruffonata, dettagli spiritosi, soprannomi che erano divenuti a tutti gli effetti una seconda identità. E così, quasi senza accorgermene, avevo dato vita ad un dialogo silenzioso che per ogni persona aveva modalità diverse di conversazione, l'utilizzo di certi aggettivi anziché di altri, persino dei cambi di tonalità. E quanto mi scaldava il cuore ricordare che cosa avrebbe detto Tizio o come avrebbe reagito Caio, quel certo modo di spostare i capelli dal viso, oppure quell'inconfondibile dondolio nel camminare.
Erano infiniti dettagli d'Umanità che riaffioravano, facendomi percepire presenze di chi ormai presente non poteva più essere e realizzare come il nostro passaggio lasciasse delle impronte indelebili nei nostri cuori, esperienze, lezioni di vita così determinanti, tanto da dare un senso a ciò che definiamo eternità. Non un banale risanamento del corpo in disfacimento, come i canoni estetici vorrebbero imporci, ma un Testimone del nostro modo di essere, unico ed irripetibile.
Noi, stretti a doppio filo con il resto dell'Umanità. Noi, mano nella mano con le persone che incontravamo lungo il cammino e che subito diventavano fratelli e sorelle, legami di sangue indissolubili nonostante il nostro essere mortali.
No, ancora una volta avevo sbagliato tutto e non avevo capito nulla: non era assolutamente vero che fossimo soli, non eravamo soli mai, neanche quando ci disperavamo credendo d'aver perso un amico per sempre.
Il cuore, d'un tratto, mi batteva di gioia ed ero così rassicurata da quel pensiero che persino i miei occhi si erano aperti riportandomi alla realtà.
Il sole tramontava sul profilo del Rocciamelone e osservando il dissolversi di quel fulgore che era promessa di un'alba nuova, mi sentivo fiduciosa e pronta a combattere. Mi aspettavano tanti altri giorni, quanti non mi era dato sapere, ma avrei saputo vivere.

Centro studi Piero Gobetti

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